Il cinema di Nicolas Winding Refn può contare sul culto geloso di una “critica” di matrice Otaku, sacerdoti formati sui rotocalchi a larga diffusione, con una scarsa preparazione teorica e inclini ad equivocare l’urgenza formale con la sperimentazione, trovano nella presenza di “stile” del regista Danese una scusa per esibire una militanza convenzionale.
Tutta la forza d’urto della trilogia Pusher e di un film come Bronson, in Valhalla Rising lascia il posto ad una visione sulla durata destinata ad un fallimento posturale proprio nel tentativo marcato di farsi esperienza interiore. Era l’ora, tutti i difetti del cinema di Refn si manifestano come una colossale presa per il culo. Non è sufficiente rovesciare come un guanto le aspettative e la struttura di un racconto epico decentrando l’accumulo di brutale violenza in un territorio dall’apparenza metafisica, un sembiante che assorbe il film in una visione che non è quasi mai ne psichica ne mentale, quanto una lotta impari tra due superfici di marmo, quella dei corpi e la scultura di un’immagine che non scalfisce il tempo.
In questo senso i difetti imperdonabili di Valhalla Rising sono quelli della tipica confezione festivaliera; il tentativo di inventarsi un linguaggio (?!!) senza averne mezzi, capacità, libertà. Se la scansione in capitoli è una traccia sempre più esplicita di un dispositivo legato alla rappresentazione metastorica del tempo, la visione soggettiva del semi-cieco One-eye rimane fuori dalla metastasi del tempo come se si trattasse di un rattoppo sfacciatamente mentale; una superficie teorica sbattuta alla bell’e meglio in modo da risultare monolitica, impenetrabile, stolida.
Tra visione e cecità, vengono in mente le mutande di Claudia Schiffer che attraversano lo spazio, in quella collaborazione tra Nicolas Roeg e Adrian Utey (Portishead) intitolata “The Sound of Claudia Schiffer”, delirante ed ironico saggio di cinema “brutto” e metafisico. Non è una citazione casuale la nostra, Refn giocherella anche con il suono, sottolinea i momenti di ricerca interiore con un crescendo “sonico” (sembra di sentire Caspar Brotzmann Massaker in versione domestica) e sottrae violentemente il rumore in un cinema che rimane muto solo in superficie.
Di fatto Refn urla il suo stile, lo sbatte in faccia come un’icona inerte; anche se apparentemente sembrano resistere la sporcizia dei corpi e il movimento lurido della macchina da presa, l’ultimo sberleffo di un Cineasta della superficie ha il predominio, perchè contrariamente alle intenzioni i suoi eroi vengono ipostatizzati in un Valhalla dall’epicità stucchevole e ingombrante.