Veloce come il vento è il film più sporco e potente di Matteo Rovere, forse perché quel senso del limite che attraversano tutti i personaggi del suo cinema non è più inscritto tra i confini della superficie pop, tra l’altro estremizzata e sabotata sempre con intelligente ferocia dal regista romano.
Di quel dispositivo rimane il senso tattile del ritmo e della velocità e la capacità di costruire un racconto di formazione poco italiano per la quasi totale assenza di retorica, tuffandosi a capofitto in quella relazione fisicissima tra corpi e motori, fino a farla fuoriuscire dalla pista del campionato Gt. Questo mondo penetra nell’altro, come unica possibilità di appellarsi alla vita, contro la corruzione dello sport, quella del lavoro e il tradimento della famiglia.
Elena in Un Gioco da Ragazze, Méte ne Gli Sfiorati, Giulia (Roberta Mattei) in questo film, hanno perso qualsiasi punto di riferimento, e al di là del bene e del male cercano di afferrare la qualità dell’istante, l’interstizio in cui la rivelazione possa manifestarsi.
L’ossessione per una sorella, quella per il professore e la necessità di salvare il pignoramento di una casa vivendo la pista come ultima possibilità, accomuna le anime che occupano il bordo nel cinema di Matteo Rovere, giovani cresciuti troppo in fretta e interrotti in quello spazio tra desiderio e paura, costrizione e libertà.
C’è una sequenza significativa nel film di Rovere che vede Giulia tornare da una serata di totale divertimento e abbandono, vestita con uno splendido vestito rosso.
Ad aspettarla il fratello maggiore Loris (Stefano Accorsi) tossico senza speranza che sta cercando di dare una mano alla ragazza affinché vinca il campionato e possa mantenere la proprietà della casa, venduta dal padre defunto ad uno dei peggiori faccendieri nel mondo del Gran Turismo. Nello scambio tra fratelli, Rovere riesce ad individuare una serie di sentimenti contrastanti con i gesti e con un dialogo ridotto all’essenziale, capovolgendo la percezione del senso di responsabilità che fino a quel momento inquadrava Giulia come una ragazza che per elaborare la fuga della madre, era stata costretta a diventarlo suo malgrado. In quel momento di liberazione Giulia torna ad essere un’adolescente e osserva il fratello con occhi diversi, in una relazione che pur allontanando il rischio di diventare esplosiva come quella tra Méte e la sorella Belinda ne “Gli Sfiorati”, mantiene un intenso livello di ambiguità, tra rifiuto, bisogno e attrazione, che rimarrà inalterato fino alla fine.
Questo gioco di rispecchiamenti osservati attraverso uno sguardo che non giudica mai, avviene anche nei contesti moralmente più controversi, quelli a cui Rovere è interessato da sempre. La richiesta di Loris per partecipare all’Italian Race, la competizione clandestina sorretta da un giro di scommesse e organizzata da Ettore (Lorenzo Gioielli) mette i due uomini in condizione di confrontarsi prima della scelta.
Rovere costruisce anche in questo senso una sequenza di fortissima ambiguità e complessità emotiva, dove i due sembrano quasi padre e figlio, con il primo che lo mette in guardia dai pericoli a cui potrebbe andare incontro partecipando alla gara, mentre i ferocissimi cani da guardia si eccitano sullo sfondo e il tossico quarantenne assume il ruolo di un figlio con la voglia di libertà e la necessità di scommettere sulla propria vita a costo di rischiare, un insegnamento prezioso che trasmetterà anche a Giulia.
Rovere fa un cinema che in Italia si produce raramente, lontano anni luce dall’autoreferenzialità che fa rima con autore, trovando senso nella pienezza del gesto, nella potenza dei motori, nella vicinanza dello sguardo al movimento mai riconciliato dei corpi. Come Loris si muove sul cordolo, in questo caso quello del genere, dal quale assorbe alcune regole e l’attenzione per il ritmo, per poi tagliarlo lateralmente secondo uno schema liberissimo, tutto istinto e intensità.