lunedì, Dicembre 23, 2024

Venezia 62 – The wild blue yonder (Werner Herzog, Francia-Regno Unito, 2005)

Settembre duemilauno. Michael Jackson stava per uscire con il suo Invincible, così Werner Herzog pensò bene di portare al Lido Invincible, il suo nuovo Spielfilm. Diciamo pure film narrativo o di fiction, visto che da molti è stato considerato alla stregua di un tv movie. Passano quattro anni, le sezioni cambiano. Così come Invincible passò nella vecchia Controcorrente (in lizza per il Leone dell’anno!), il nuovo The wild blue yonder sfila nell’ottima Orizzonti. Sezioni collaterali, sulla carta un concorso di serie B, in realtà uno dei pochi motivi per cui fare la fila al festival e sorbirsi, quest’anno almeno, sfiancanti e umilianti misure di sicurezza. Per uno come Herzog, abituato a sprimacciare gli orizzonti e a correre against the grain (trad.: controcorrente), l’atmosfera della sessantaduesima mostra apparirebbe aliena, un po’ americana, e forse gli piacerebbe. Perché di questo parla The wild blue yonder. Di alieni. Di americani. Quello, quello là, lontano: questi i significati di yonder, termine poetico accorciabile in yon, come fa il protagonista Brad Dourif appena prende parola. Il selvaggio, lontanissimo blu. Anche spazio profondo rende l’idea, con licenza per l’appunto poetica. The wild blue yonder non è un nuovo Spielfilm. È un documentario, un lavoro “nel frattempo”, pratica a cui Herzog si dedica da più di trent’anni con esiti, in tutta sincerità, mediamente più felici delle sue incursioni nella narrazione, nel finzionale puro. Eppure, eppure qualcosa non torna. Se dire film sarebbe una bugia, dire documentario sarebbe fuorviante. The wild blue yonder è, in base ai credits, un “science fiction fantasy” in dieci capitoli, con musica originale, che mescola riprese realizzate per l’occasione – starring Brad Dourif – con materiale di repertorio. L’effetto finale è un distillato di Herzog: alterità, infrazione dei limiti, viaggio suicida, ipotesi übermensch. Il risultato è un bricolage ipnotico ed emotivo. Il film si apre su una spianata di moderni mulini a vento. Centinaia di generatori di energia eolica immersi in una luce livida. Un uomo sui cinquanta li sta guardando. Ci dà le spalle. Ha una lunga coda di cavallo grigia che scende lungo una giacca lurida. D’improvviso si volta e ci dice chi è, e da dove viene. Un alieno da Andromeda. Dove siamo? La domanda è urgente e oziosa allo stesso tempo così come la risposta è liberatoria, e necessita di una sospensione di incredulità: siamo in una zona del crepuscolo, stiamo guardando un documentario immaginifico, che scambia l’oceano per l’universo e una missione della NASA per il viaggio kubrickiano di 2001. Brad Dourif è americano, il suo accento non mente. Dietro di lui il panorama cambia repentino, e per il resto del film abbiamo davanti a noi le estreme periferie dell’Impero. Baracche, strade polverose, edifici abbandonati a se stessi. È l’America sognata, o semplicemente l’America fissata con occhio diverso, che Herzog ha già filmato nella Ballata di Stroszek (1977) o nel corto How much wood would a woodchuck chuck (1976). Torna lo sguardo idiota, in senso dostoevskijano, di Bruno S. Solo che ora che ha gli occhi folli di Brad Dourif, e invece di guardarsi i piedi punta verso il cielo. Anche la definizione di “finto documentario” non si addice a The wild blue yonder. Non è una burla sorniona come Zelig o Forgotten Silver. C’è qualcosa di giocoso, sì, ma l’elemento portante è emozionale, e va ben oltre il pretesto di trama: l’alieno racconta di come lui e in suoi simili siano sbarcati sulla terra tanto tempo fa, e di come abbiano fallito nel tentativo di renderla un posto migliore. A tale proposito il film snocciola filmati di repertorio la cui vera natura viene riscritta dalle parole di Dourif. Fino qua, Forgotten Silver. L’alieno mostra con disprezzo l’area devastata dietro di lui, e spiega come lì avessero costruito la città perfetta, con tanto di Pentagono, Congresso e centro commerciale. Un progetto fallito a causa della scarsità di acquirenti. A questo punto la burla si fa intensa, e viene addirittura tirato fuori l’incidente di Roswell. Dourif sostiene che le scoperte segretissime e allarmanti fatte dalla NASA condussero a una missione spaziale per la ricerca di una nuova Terra, perché il vecchio pianeta rischiava un contagio senza precedenti. La missione viene seguita da fior di scienziati, che in prima persona descrivono le loro teorie sul caos creativo e la possibilità di autostrade galattiche spontanee, destinate a crearsi per via dello scombussolamento delle orbite dei pianeti. Il futuro ci riserverà non più un sistema solare fatto di pianeti e di orbite concentriche, ma un intricato labirinto di tubi in cui viaggiare senza muoversi. Confusi? Ovviamente. The wild blue yonder è anche questo: detours narrativi, incanti audiovisivi, una sfida all’etichettamento di genre in salsa bricolage. Seguiamo la missione degli astronauti da dentro lo Shuttle. Fluttuano, mangiano, giocano: spaccati di 2001 con un commento off che ricorda i primi film di Cronenberg, ad esempio Crimes of the future. Ma ecco la svolta decisiva: gli astronauti trovano il luogo dove stare. È azzurro, è profondo, pieno di vita: il lontano, selvaggio blu. Lo stesso da cui vennero gli antenati dell’alieno Brad Dourif. La Terra resterà un luogo disabitato su cui passare le vacanze. Il futuro è blu. Il film si conclude con lo scorno dell’alieno, deluso dall’ennesima storia di conquiste incrociate, di viaggi apparenti, dell’ignoto che si fa famigliare e viceversa. Alla fine l’oceano del polo nord ci appare davvero come un pianeta azzurrothe wild blue yonder! – e la nostra terra martoriata assume i tratti di un panorama alieno e irriconoscibile, eccezion fatta per i luoghi dove l’uomo non è ancora arrivato. Ciò che rende piano e fluido cotanto arzigogolo è la sua resa cinematografica. Il repertorio vince nettamente sulle riprese nuove di zecca. I piani lunghi – quasi piani sequenza, ma è un documentario… – dominano indiscussi, e ammaliano. La colonna sonora di Ernst Reijseger, con il contributo dei Tenores e Cuncordu de Orosei (Sardegna, Italia), si mangia buona parte del film. Un film di audiovisione pura, in cui il montaggio è ridotto al minimo. Suoni, Volti e Natura compiono il miracolo, come in gran parte delle opere di Herzog. Maestro non nell’affabulare, ma nello stupirsi, e nel farci condividere il suo stupore primigenio. In molti non sarebbero d’accordo. Molti considerano Herzog una vecchia volpe senza più conigli nel cappello, che sbatte sullo schermo quello che gli capita a tiro. Molti, vedendo le sue riprese acquatiche, hanno citato Jacques Cousteau nel migliore dei casi, nel peggiore Leni Riefenstahl. C’è chi sostiene che gli 81 minuti effettivi di The wild blue yonder diventano 120 minuti percepiti, e che 50 sarebbero bastati e abbondati. C’è chi trova questo bricolage fiacco e patetico, come l’immagine riciclata dei granchi rossi alla fine di Invincible. Riciclata, certo. Ma adatta e ancora produttrice di sogni, ancora capace di farci andare lontano. How far have you gone? Ci chiede l’alieno, facendo un paragone imbarazzante tra la storia di Andromeda e quella del nostro pianeta. Poco dopo siamo immersi nello spazio (l’oceano), e passano le immagini di uno di quei luoghi che nessuno ha visto mai e che Werner Herzog scova, e guarda. Dall’elicottero, una landa vergine e sconfinata, un monte parallelepipedale, ovunque alberi e rocce, e dal monte fiotti d’acqua che si buttano nel nulla. Cascate. Benvenuti sul pianeta Terra.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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