Il cinema di Aoyama Shinji, del tutto assente dal nostro mercato distributivo, conta più di 10 lungometraggi; ha subito un cambiamento decisivo con Kôrogi, il film presentato a venezia 63 e Dedicato a Daniel Schmidt, il regista svizzero con il quale Shinji ha sviluppato una feconda collaborazione. Prima di questo la sintesi della sua ricerca è ben rappresentata da due estremi inclusivi del suo cinema, per certi versi molto simili come Eureka, primo successo a livello internazionale e Eli, Eli, lema sabachthani?, possenti road movie del visibile, girati in un panoramico senza margini e legati ad un interesse specifico di Aoyama Shinji per i corpi, gli oggetti e le dinamiche causali che regolano scelte e movimenti dei suoi personaggi.
Sad Vacation abbandona questa forma monumentale dell’immagine e sfrutta l’incertezza di una bassa definizione quasi documentaria; comincia comunque con un viaggio, ma nella sua fase terminale, giunto ad un’apparente fase di approdo; Asano Tadanobu fugge da un passato che ha radici dolorose, e come in un noir disfunzionale, cerca di uscire dal peso del tempo portandosi dietro le scorie della ripetizione e una visione escatologica degli eventi.
Quello che rende Sad Vacation uno splendido film sulla materia è la non centralità del sistema narrativo; senza ricorrere ad espedienti che potrebbero far parlare di film corale o di sciocchezze simili, il mondo materiale di Asano è regolato da un determinismo che ogni volta va in frantumi con sguardi alieni, corpi che non gli appartengono, dispositivi ambigui della morale, la materia oscena e visibile del dolore. Non è un caso che Sad vacation sviluppi le sue storie di mutua violenza all’interno del set familiare; un sistema già dato per imperfetto, allargato, destinato a sopravvivere solo in una dimensione sincretica, pena la dissoluzione.
C’è in questo senso una connessione assolutamente suggestiva con un altro luogo dello spazio familiare, quello messo in scena da Kurosawa Kyioshi in Bright Future, e non certo per questioni strettamente tematiche. Kurosawa, soprattutto nella prima parte del suo capolavoro, filma una spazio contratto, quasi astratto e che entra in una relazione disomogenea con i corpi che lo occupano, variante inesorabile dei suoi scenari post-industriali, concentrazione dell’orrore degli spazi mentali di Kairo all’interno del nido familiare; i due Asano (Kurosawa/Shinji) sono congelati in un silenzio molto simile, irrompono in queste terribili geometrie con la stessa violenza distruttiva, rifiutano il legame con la materia nel rigetto della struttura familiare.
Aoyama Shinji sviluppa da qui un potentissimo esempio di cinema ellittico che sarebbe inutile e del tutto scolastico riferire a questa o quella tradizione orientale/occidentale (da ozu alle entomologie Imamuriane, fino a Bresson e a Fellini); si serve davvero di oggetti, macchie di sangue, vetri in frantumi, urla che squarciano l’immagine, una violenza terribile e inaudita soprattutto quando è fuori campo e una sovversione continua del punto di vista; basti pensare al ruolo dei personaggi femminili, motore im-mobile e pietra scagliata contro il vetro di ogni escatologia, anche Giapponese, basti (ancora) pensare alla splendida sequenza di dialogo tra Asano e sua madre durante l’ora di ricevimento in carcere, sovrimpressione infinita di controcampi carcerari che per forza o per suggestione alludono ai percorsi ambigui dello sguardo e dei sentimenti. A memoria e per amore, Pickpockette, Bright Future, The Light Sleeper di Paul Shrader, Il silenzio degli innocenti con il quale condivide l’utilizzo illusorio e fantasmatico della sovrimpressione, dove il vetro che separa madre e figlio compare e scompare perché siamo già davanti, dietro, oltre quell’immagine.
Uno dei più bei film visti per ora a Venezia 64, una delle visioni più laceranti sui sentimenti, visti e accecati attraverso la materia volatile dell’immagine, la re-invenzione e la distruzione di (uno) spazio