Small gods si trascina sin dall’inizio sui rumori e i suoni di una folktronica disfunzionale, e costruisce uno spazio mentale a partire dal dialogo tra un avvocato e la sua cliente; in questo c’è un tentativo di percorrere una via che confonda le due soggettive, quella della memoria e un livello più immaginifico che si ciba in modo ambiguo di tutti i tessuti della visione. Niente da dire sulle capacità dei fratelli Karakatsanis, che si dividono scrittura e direzione della fotografia, nell’elaborare una serie di variazioni cognitive forzando il colore, i formati, bassa definizione, difetti della percezione. Ecco, difetti, sono proprio questi in realtà ad essere abilmente simulati, perché la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad una macchina del senso costruita per funzionare, mtv generation 2.0 dove gli strani dis-equilibri tra pieno e vuoto sono evitati come la peste e il dolore della perdita non struscia con oggetti e increspature del tempo perché soffocato da un bellissimo bombardamento di estetica sensoriale che cerca la sutura a tutti costi. La colonna sonora di Aldo Struyf, concepita a partire dalle suggestioni minimali dell’imperfezione folk, porta con se tutti gli intoppi di certo glitch che del difetto fa una consuetudine normativa e prevedibile.