Lo zoccolo duro degli Otaku Miikiani, nonostante l’amore, è parso deluso dall’ultimo esperimento sul tempo e la carne del regista Giapponese, eppure il cinema di Miike Takashi, in particolare a partire da Izo e Big Bang Love Juvenile A, ha estremizzato l’immagine del transito e l’astrazione figurativa con una radicalità, che se si vuole, si spinge ancora oltre in Sukjaki Western Django. Il nomadismo che disintegra qualsiasi tentazione di affidarsi alla soggettiva di un personaggio centrale viene applicato alla biologia di un genere, cosi da mettere in circolo non tanto la solita re-invenzione quanto un complesso saggio filosofico sul tempo, la storia (anche cinematografica), la materia. Ancora ci piace farci attraversare dalla Fantascienza Bressaniana a cui il Django di Miike si avvicina pericolosamente in una sovrapposizione di segni, materiali della storia, iconografie depistanti e soprattutto la permeabilità mutante di questi stessi elementi, in un gioco tra oriente e occidente che fa naufragare qualsiasi ipotesi autoritaria sulla soggettiva. Django esiste solo attraverso la dinamica del contagio, vera e propria possessione che domina i corpi dei personaggi, immagine in transito che si serve anche della citazione cinematografica Corbucciana con un movimento che ne disintegra le schegge in una costante collocazione fuori luogo; in questo senso Django possiede tutte le caratterizzazioni Miikiane, non ha un’identità univoca o un sesso definito, è un’anima della vendetta che ancora una volta, pensando ad una delle piu belle danze Miikiane viste attraverso il corpo elettrico e carnale di Yoshino Kimura, immerge la visione e il tempo nella carne, attraverso la possessione.