Lo spunto della vicenda viene da un indios della tribù, Ambrósio, poi il protagonista del film (Nádio) che ha guidato i suoi compagni nell’occupazione delle terre degli antenati all’interno di una fazenda, sfidando l’ostilità e le continue vessazioni del proprietario. Da qui la storia del film: un gruppo di indios capeggiati da Nadio e uno sciamano decidono di ritornare alla terra dei padri dopo l’ennesimo suicidio nella riserva, credendo che riappropriarsi di quei luoghi possa in qualche modo restituirgli la dignità della loro cultura. Cultura che si fonda principalmente sulla caccia, la ricerca quotidiana degli oggetti utili al proprio sostentamento (Nadio proibisce ai suoi di comprare il cibo, perché nella tradizione indios il cibo va semplicemente cercato e preso ) sui riti sciamanici ( l’apprendista sciamano Osvaldo,indeciso tra tradizione e modernità, rappresenta le difficoltà delle nuove generazioni a raccogliere il testimone delle vecchie, in una condizione di sradicamento e continua lotta per il diritto ad esistere.)
Bechis decide di andare in una direzione opposta rispetto ai film del passato ambientati in Amazzonia, quali The Mission o Fitzcarraldo: “In Mission, gli indigeni colombiani Waunana, che nel film interpretavano il ruolo dei Guarani, facevano sempre e solo da “sfondo” alle scene, accanto alle “figure” principali interpretate da Robert de Niro e Jeremy Irons. Nel mio film, volevo rovesciare questo schema attribuendo agli indigeni il ruolo dei protagonisti, delle “figure”, relegando gli attori bianchi professionisti sullo “sfondo”. E un ruolo completamente marginale è quello interpretato da Claudio Santamaria, pagato per fare lo spaventapasseri degli indios: il suo personaggio, oltre ad essere in secondo piano, manca anche di una precisa caratterizzazione, essendo la sua posizione indecidibile fino alla fine, sembra non essere disturbato dagli indios- anzi, è attratto dalle donne indigene- ma neanche interessato a difenderli. La stessa condizione di osservatrice disattenta è quella dell’altro ruolo marginale del film riservato ad un attore professionista, e cioè quello di Chiara Caselli, moglie del fazendero Moreira, che impartisce lezioni di birdwatching ai turisti in visita alle riserve: a volte il suo sguardo tradisce perplessità nei confronti delle reazioni del marito, che non vengono mai palesate.
Forte di una regia raffinata e solida che dosa classicità e scarti di camera, sempre giustificati dalle visioni preveggenti di Osvaldo, il film soffre però di alcune semplificazioni, come lo scarso spazio lasciato all’analisi delle cause dei frequenti suicidi, e l’incontro tra i due mondi, fugace e incomprensibile, rappresentato dalle avventure sessuali rispettivamente di Osvaldo con la figlia del fazendero e di una indigena con lo spaventapasseri Santamaria. Viene il dubbio che forse la forma più adatta per rendere giustizia ai molti anni passati da Bechis nello studio ed esplorazione del mondo dell’emarginazione indios fosse il documentario vero e proprio. Risulta comunque ammirevole il suo lavoro per ‘educarli’ ad una recitazione che in realtà è insita nella loro cultura , fatta di ritualità e simbolizzazione: i quattro protagonisti, presenti anche a Venezia, non hanno niente da invidiare ad attori professionisti oramai navigati.