Per me i ricordi sono come sciami di mosche.
Non so se ricordare, non voglio.
Agnes Varda, in Les plages d’Agnes.
Se una persona potesse essere sezionata, dice Agnes Varda, quello che si vedrebbe al suo interno sono dei paesaggi, fotogrammi calcati sulle pareti porose della memoria che, una volta liberati, si proiettano come vecchie fotografie sgualcite su un album dalle pagine svolazzanti. E’ questa l’immagine da cui si leva una delle opere più entusiasmanti di questa edizione del Festival veneziano, che vede Agnes Varda, fotografa, regista e video artista che ha fatto della marginalità e riservatezza la cifra stilistica del suo cinema, aprirsi allo schermo, erigendosi a protagonista di un film che, come annuncia prima dei titoli di testa, parla di una vecchietta chiacchierona e curiosa, in realtà incuriosita sempre più dagli altri, che da sé stessa.
Il paesaggio che esce dal corpo sezionato della Varda non può che essere la spiaggia, che tempesta simbolicamente all’inizio del film di specchi appesi e dondolanti, cornici vuote in cui si inquadra fotografare l’obbiettivo che, da adesso in poi, restituirà principalmente la sua immagine.
E in effetti il trait d’union della sua vita sembra proprio essere il mare e le sue distese sabbiose, a partire dalle numerose spiagge della sua infanzia in Belgio, fino agli anni da sfollata quando viveva su un veliero nel porto di Sete, alla Los Angeles della sua incursione decennale in America con Jacques Demy, fino all’ isola di Noirmoutier in Vandea sulla costa atlantica occidentale, dove ha passato gli ultimi anni .
Il volto intenso e denso della Varda buca l’obbiettivo mentre cammina all’indietro nei set autentici o ricostruiti del passato, mettendo in atto un’operazione necessaria e insieme dolorosa, totalmente smorzata dalla sua intelligentissima ironia dal tocco naif. E visto che la memoria si muove come uno sciame di mosche, i suoi ricordi non seguono traiettorie cronologicamente perfette, ma si abbandonano a scarti e parentesi, fughe e arresti, servendosi di forme e materiali eterogenei e sconnessi, che vanno dalla ricostruzione di episodi o immagini servendosi di attori e set ricostruiti a fotografie, frammenti dei suoi film e delle sue istallazioni e mostre.
Rapiti dal filo a più capi dei suoi pensieri la seguiamo mentre ripercorre volubile i suoi passi, in cerca di oggetti e sensazioni. Il procedimento del ricordare per lei non può essere scisso da quello del guardare e descrivere cosa sostituisce il prima nell’oggi, le forme che ha preso e le sue derivazioni, ciò che resta e soprattutto quello che non resta, come quando torna a visitare la casa in cui viveva da piccola in Belgio, e dice di ritrovare il giardino, ma non le sensazioni, e poi, ammaliata dalla collezione di trenini in miniatura del nuovo padrone, trascura di andare a visitare il resto della casa.
Les plages d’Agnes è comunque un’autobiografia, sebbene centrifuga: la seguiamo dall’infanzia in cui la madre le faceva pulire i coltelli ossidati smuovendoli nella terra del giardino, agli anni dell’adolescenza inquieta (“la realtà non mi importava, e non sapevo nulla della vita”), fino alla passione per la fotografia, perché doveva imparare un mestiere, e la cosa che le venne più naturale fu quella. Da lì al cinema il salto fu breve e inevitabile (“ricordo che avevo bisogno della parola, perché per me a quell’epoca il cinema era principalmente l’immagine e la parola insieme”), senza apprendistato o scuole, semplicemente, come dice: “Ho immaginato, e mi sono lanciata.” E dopo poco si è trovata immersa nel fermento della Nouvelle Vague, aiutata da Godard che la segnalò a Betancourt in cerca di registi che costavano poco:da qui nacque il primo successo Cléo dalle 5 alle 7. E la costellazione di artisti che hanno popolato la sua vita artistica parigina e non è presentata attraverso le fotografie che scattava, spesso nel cortile di casa sua, luogo diventato storico di aggregazione ed esposizione di opere, spesso anche set di film suoi e di Demy.
Ed è proprio la figura del compagno, padre naturale del figlio e adottivo della figlia, che domina tutto il film come un rumore di fondo dolcissimo, rimpianto che suscita un pizzico di gelosia verso una coppia di amici (Barbara Knopp e il marito) insieme da 45 anni, protagonisti di una delle tante parentesi giocose del film. La cifra visiva delle memorie di questa eterna ragazza oramai ottantenne infatti è il colore, forma gioiosa delle cose, dei suoi abiti sgargianti, delle sue istallazioni, l’arancione cartone animato dell’Isidoro-Guglielmo che la intervista come un critico cinematografico dalla voce di robot.
Per Agnes ricordare e vivere sono la stessa cosa, essa non guarda al passato con languore desiderante, ma con curiosa ansia di documentazione: non ha smesso di cercare, incontrare, frugare per scoprire. Non è spaventata dalla sua età, anzi, è felice di vederla sciorinata da altrettante scope regalatele nel giorno dei suoi ottanta anni, come documenta il siparietto finale a sorpresa dopo i titoli di coda.
Impaziente folletto dalla chioma bicolore, manifestazione filosofica della sua indecisione tra il gusto dell’artificio-nascondere i capelli bianchi- e una etica della realtà, non resiste all’imbarazzo di una standing ovation di dieci minuti dopo la proiezione in Sala Grande, e se ne va, a passeti lievi di danza, come un chaplin in versione femminista, dritta verso una nuova avventura.