E’ sullo sfondo di un complesso della Petrobras, il colosso petrolifero Brasiliano che ha co-prodotto il (comunque) bello A Erva Do Rato di Julio Bressane, che Cocada racconta le sue aspirazioni, diventare camionista e salvarsi dalla periferia di Pernambuco spaccata in due da un orizzonte di luce digitale che traccia il confine con un deserto infestato dalla morte. Il documentario di Andréa Santana e Jeanne-Pierre Duret è uno dei più belli visti a Venezia 65, non solo per questa confessione adulta e terribile di due adolescenti del Nordeste Brasiliano davanti alla presenza impura della macchina da presa, ma per un’aderenza a gesti e parole che dissolve il peso della soggettiva, come succede in modo certamente più dolce e meno doloroso in D’Amore si vive, di Silvano Agosti, rendendo l’immagine una trans-apparenza dello sguardo, un livello della vicinanza che commuove senza realmente esserci, lì, a violare. Jeanne-Pierre Duret, tecnico del suono per Straub-Huillet, Doillon, Dardenne, Chabrol, Zulawsky, Varda solo per citarne alcuni, esaspera la prospettiva dei suoni e li trasforma in immagini auditive, basta pensare a come la morte attraversa tutto il film con la visione di animali già in stato di decomposizione oppure stanati in un rantolo nel passaggio dalla vita alla morte, con i rumori che persistono e pesano molto più delle immagini. E’ una scultura sonica che Andréa Santana elabora sul piano visivo con immagini accecanti divise tra uno spazio fatto di luci senza ombra, di architetture industriali e il deserto che riassorbe tutto quanto. In uno scenario cosi minaccioso, il racconto di Cocada e di Nego, adulto o probabilmente, mai stato bambino, riproduce questo confine tra luce artificiale e morte cercando di identificare un interstizio, un luogo di confine dove la mitologia di un sogno si possa manifestare come unica salvezza dalla dissoluzione, dal momento che siamo già nati. Tutta la sezione girata alla stazione di rifornimento, con i Tir così mostruosi da diventare al contrario manifestazioni dello stupore per gli occhi dei due bambini, è come se fosse filmata fuori dallo spazio, in un’isola di luce che fa davvero pensare ad un altro Brasile, quello fantascientifico e realissimo di Yu-lik-Way nel Plastic City visto a Venezia 65.
Puisque noùs sommes nés – di Jean-Pierre Duret, Andrea Santana
Plastic City, di Nelson Yu-lik-Way