Il cinema scritto da Arriaga flette su se stesso nell’esordio alla regia dello sceneggiatore messicano; The Burning Plain sin da subito riduce quasi a zero gli artifici insopportabili del cinema di Innaritu lavorando sul tempo come se fosse una cicatrice. E’ un’allusione semplice e immediata quanto l’esposizione reiterata delle ferite sui corpi dei protagonisti, ma nella riduzione del segno ad elemento del visibile arricchisce lo sguardo con una dinamica che si lascia andare allo stupore e alla meraviglia e che attraversa finalmente le spaccature del set senza chiuderle nella morsa del meccanismo. Charlize Theron è in fondo l’immagine allo specchio della scrittura di Guillermo Arriaga, un cortocircuito doloroso che inceppa la pratichetta dello smontaggio in una torsione che fa i conti con l’abisso del tempo. Cattiva sincronizzazione o Bad Timing; in questo senso siamo lontani dai palindromi aperti verso il vuoto del cinema di Nicolas Roeg, che esce adesso in alcuni paesi Europei eccetto l’Italia con il suo ultimo Puffball, bellissimo film infestato dalla sporcizia di uno stile non addomesticato, imperfetto e vitale e che entra sino in fondo nelle viscere del tempo. Al contrario, la tentazione combinatoria e il funzionamento del risultato sono probabilmente i limiti più forti di The Burning Plain; c’è un tentativo di ripristinare la sicurezza di tutte le connessioni in un abbraccio ecumenico che corre il rischio di includere e quindi disintegrare tutti i salti, le differenze e le increspature della scrittura. Non siamo dalle parti della teoria del caos for dummies ma a un certo punto si corre il rischio che tutte le ferite si chiudano in un dolce domani accecato da una luce senza alcuna zona d’ombra.