Superata la soglia degli ottant’anni, Frederick Wiseman persegue coerentemente lungo il percorso da lui stesso concepito e battuto di un cinema osmotico, calato impercettibilmente nella routine di un universo chiuso di cui riporta consuetudini, straordinarietà e meccanismi costituenti. Lo fa con un documentario su commissione, pensato all’interno di un progetto di ripristino ad alti livelli del prestigio del Crazy Horse, celeberrimo locale di balletto erotico di Parigi. L’operazione, per nulla distante nei presupposti all’interesse poetico del regista, gli permette di avventurarsi nell’esplorazione di una dimensione piuttosto estranea ai suoi lavori precedenti: la cronaca dello spettacolo, la messa in scena della messa in scena. Trovano grande spazio nel film, infatti, i numeri di balletto nudo dei quotidiani programmi del locale, alcuni dei quali visivamente molto creativi e di notevole livello artistico ed emozionale, restituiti prevedibilmente con il rigore di un’osservazione che poco o nulla vuole aggiungere all’impatto che possono avere su uno spettatore del Crazy Horse, se non l’isolamento virtuale della sala cinematografica. Allo stesso modo, fanno capolino nel film le interviste ai dirigenti artistici del locale, rarità liminare nel teorema cinematografico di Wiseman e per questo coerentemente gestita da mero “osservatore e selezionatore”: riprende i soggetti mentre sono intervistati da TV o giornalisti estranei alla produzione del film. A questi controllati azzardi si aggiunge la consueta minuzia descrittiva e la cattura di frammenti significativi in una vastissima quotidianità di girato: discussioni, prove degli spettacoli, momenti di distensione, reazioni del pubblico, processi automatici nel lavoro di camerieri, coreografi, ballerine, costumiste e addetti luci. Il Crazy Horse viene colto in un’istantanea durante un delicato momento transizione: il passaggio da una fase di superlavoro per lo staff e per il navigato direttore artistico a causa del rinnovamento dei programmi di spettacoli in cartellone, fino all’affiancamento di un secondo responsabile dei numeri, giovane, eccentrico e grande fan del locale, con le conseguenti fasi di rodaggio e definizione dei ruoli. Nell’emergere di caratteri, atteggiamenti e competenze, rimane intatta una distanza ammirata verso il corpo di ballo, entità multiforme ma coesa, colta nelle massacranti fasi di preparazione ed in sinceri momenti di svago(bellissima la sequenza in cui le ragazze ridono di un filmato di “papere” dei grandi ballerini classici), ma sempre incorniciata nel contesto dell’idea di femminilitá più volte ribadita dagli ideatori degli spettacoli: una bellezza consapevole, ironica, aggressiva ma al contempo vulnerabile e non volgare, spinta oltre i limiti dell’usuale e quotidiano dall’astrazione artistica del trucco e del ballo.
Crazy Horse di Frederick Wiseman: recensione, Venezia 78
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