Dopo una lunga carriera come attrice iniziata alla fine degli anni ottanta, due cortometraggi come autrice girati tra il 2001 e il 2004 e alcune esperienze dietro la macchina da presa in supporto di Steven Spielberg (Munich), Yousri Nasrallah (The Gate of sun) e Inarritu (Babel), Hiam Abbas esordisce nel lungometraggio con Héritage, film ambientato nel contesto di un imprecisato conflitto tra Israele e Libano ma senza un riferimento specifico alla guerra del 2006.
Nelle intenzioni della Abbas, Palestinese nata in Israele, c’era l’idea di rappresentare una sospensione dell’esistere, quel senso di appartenenza e spaesamento che fa parte dei Palestinesi d’Israele; anche per questo motivo la Abbas lascia il conflitto in una posizione marginale, lavorando quasi esclusivamente sul suono e sul sound design, come se fosse un costante rumore di sfondo, una presenza invisibile che in qualche modo condiziona le vite dei protagonisti.
Il centro di una famiglia che vive nel nord della Galilea e che deve celebrare il matrimonio di una delle figlie, viene assorbito dall’improvviso coma profondo del padre; quello che è un sistema di relazioni tenuto insieme dalle convenzioni verrà sgretolato non solo da questo evento ma da una serie di frizioni interne legate alle scelte di Hajar, una giovane ragazza interpretata da Hafsia Herzi che in un certo senso segue il percorso personale della stessa Hiam Abbas, senza per questo esserne una traccia totalmente autobiografica.
Hajar vuole lasciare il paese per affermare la sua ansia di libertà, sia come artista creativa, sia per vivere in serenità la storia d’amore con un giovane ragazzo inglese. La Abbas sceglie la Herzi proprio per quelle caratteristiche liminali del suo recitare, questa sua capacità di esprimere un lato spontaneo e libero minato da una tristezza interiore; Hajar è a metà tra due mondi e i momenti più riusciti del film sono quelli dove l’incontro o lo scontro fisico con due facce del mondo maschile rendono percepibile nella sua recitazione e in questo suo deambulare da un lato all’altro della città, una frattura che va al di là di un’agiografia che la identifichi come una vittima o una ribelle, e che trova quegli stessi semi nel desiderio di una libertà quotidiana. La Abbas realizza un fim incerto e riuscito a metà, dove le intenzioni certamente ammirevoli e sincere di spostare l’analisi di una cultura complessa e stratificata al livello delle relazioni più intime è efficace e fuori dalle convenzioni di una narrazione sin troppo “piana” solo quando riesce ad avvicinarsi al corpo ribelle di Hafsia Herzi, anima dolente e instabile.