Mentre i rapporti tra la madre e il suo carceriere, inizialmente guardato con ostilità, si ammorbidiscono tanto che lei gli permette di dormire nella camera del figlio morto, il secondo genito torna con una ferita d’arma da fuoco alla gamba.
Come affermato dalla stessa regista ed interprete Djamila Saharaoui nel corso della conferenza stampa, allo stesso modo di ciò che accade nelle tragedie greche, nel film le vittime divengono carnefici e la madre (Yema in algerino significa Madre) nell’ultimo segmento del racconto non è più capace di pietà per il figlio superstite, pur rimanendo divisa tra amore ed odio.
In Yema, opera nella quale gli elementi acqua, terra e aria si scontrano in maniera primordiale nell’incredibile set naturale offerto dalla campagna algerina ora brulla ora rigogliosa, non sono più le leggi degli uomini o della religione a prevalere, ma quelle dell’istinto e del dolore. La vita dei protagonisti rispecchia le stesse azioni, quando fosse possibile poterle osservare da vicino, che si vedrebbero compiere dai protagonisti della tragedia classica, alla quale la regista algerina afferma di essersi ispirata: Ho collocato l’azione in Algeria in un momento non ben precisato che però va dagli anni 90 al 2005, quando era in corso la guerra tra militari e islamici. I 2 fratelli non lottano quindi contro qualcosa di esterno, ma l’uno contro l’altro, è una guerra che si consuma all’interno di una famiglia.
Io sono impregnata di cultura classica, conosco profondamente tutte le tragedie greche, e benchè non avessi in mente un riferimento preciso ad una particolare opera, nella stesura della sceneggiaturaquesti riferimenti sono emersi spontaneamente.
La tragedia classica, come quella moderna vissuta dall’Algeria sono parte di me.