La sua formula per l’emancipazione: libero pensiero in libere mutande. Colta e intellettualmente vivace; antiaccademica nei metodi d’insegnamento utilizzati con i propri allievi (propone letture e analisi dei ricercati testi di Kenzaburō Ōe), ai quali vuole trasmettere il desiderio di coltivare un senso critico autonomo e immune dai condizionamenti; disinteressata ai miti borghesi della sistemazione matrimoniale con figli e appartamento in periferia; fedele alle sue passioni e ai suoi sentimenti, che trovano sfogo in una relazione clandestina con un uomo già sposato. Col passare del tempo, l’opprimente mentalità della piccola località di provincia diventa per Lotus qualcosa di insostenibile e insormontabile. E’ tempo di fare fagotto e andare via. A Pechino però la situazione non sembra essere poi così tanto diversa, nonostante le apparenze.
Così come la sua protagonista, anche la regista Liu Shu non ha trovato vita facile nel girare un film indipendente (autofinanziato, senza alcun contributo esterno) in aperta polemica con la società cinese. Alle ristrettezze del budget viene in soccorso un’intensa passione, in quest’opera presentata alla Settimana della Critica a Venezia 69°. Si percepisce, infatti, un’incontenibile urgenza di raccontare degli eventi che ancora si agitano nella coscienza non pacificata della regista, una specie d’indignazione che scalpita per esprimersi. Il risultato è un po’ ondivago: le diverse ingenuità, come le trite dinamiche dei conflitti famigliari genitori/figlia, si alternano ad altrettanti momenti di grande scioltezza e chiarezza d’intenti, ben distanti da quella circospezione nell’accostarsi ai tempi, tipica degli esordienti. Una cosa va riconosciuta: è un ritratto femminile che non si perde in digressioni inutili, che cerca la limpidezza con tocchi agili e precisi, memore delle eroine e degli itinerari neorealisti del cinema di Zhang Yimou.