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Viceroy’s house di Gurinder Chadha – Berlinale 67, Concorso: la recensione

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Era da tempo che Gurinder Chadha voleva affrontare un progetto ambizioso come quello di Viceroy’s House, un modo per recuperare le origini della sua famiglia e per raccontare la storia dell’India a partire dall’indipendenza dall’inghilterra che causò la dolorosa divisione religiosa del paese tra Indù e mussulmani.

Le dichiarazioni della cineasta di origini asiatiche via via rese pubbliche durante la lavorazione del film si sono sempre concentrate sull’approccio e sulla difficile scelta di una prospettiva lontana da quella della storia ufficiale.

Siamo nell’India del 1947 e mentre il paese è alla vigilia della sua indipendenza arriva Lord Mountbatten (Hugh Bonneville) con famiglia al seguito. Come ultimo reggente britannico l’uomo deve vigilare sul delicato passaggio del paese cercando di mediare tra mussulmani, Indu e Sik.

La casa diventa un microcosmo paradigmatico di scambi e relazioni interreligiose, inclusa la storia d’amore tra il giovane Jeet (Manish Dayal) e la mussulmana Aalia (Huma Qureshi).

Sono tre segmenti, quelli delle tensioni esterne, del tentativo di mediare e della storia d’amore che si consuma nella casa del reggente, che consentono di giocare su più registri, sbilanciando il film tra le ambizioni di un affresco alla David Lean e i toni più cameristici della commedia.

La casa stessa assume il ruolo di un personaggio vero e proprio, il cui ruolo doventa quello del contenitore emotivo.Chadha sfrutta questo spazio in termini simbolici ma con una chiarissima semplicità di fondo che le consente di raccontare gli eventi più traumatici della storia del suo paese attraverso le mutazioni, anche divisive, subite dalla sua stessa famiglia.

Più che un film sull’India e sul Pakistan Viceroy’s house cerca di raccontare le conseguenze dei grandi eventi di quegli anni attraverso l’esperienza circoscritta di una famiglia.

Piaccia o meno, i riferimenti espliciti vanno dalla tradizione drammaturgica di Gosford Park a quella di Downton Abbey, commedie da camera legate all’esplorazione dei sentimenti e al delinearsi di un microcosmo decisamente lontano dalle intenzioni di imboccare un’analisi politica approfondita. In fondo l’Inghilterra e l’India, saldate ancora insieme e in modo inestricabile nelle forme dell’immaginario di consumo.

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