“Qualsiasi buon film può essere riassunto in una frase, anzi, in una parola”, affermava Truffaut. Ecco, L’exercice de l’état è un film che cerca questa parola, negandola appena sembra definirsi. Non è un film sull’attualità, non è un film di politica in senso stretto, è un film sul potere ma anche quello inteso in senso lato, è un film di ampio respiro, è un film, è una storia, è LA storia, è una storia sulla velocità, è una commedia sul potere delle istituzioni, è una ridicolizzazione delle alte sfere, è un’analisi socio-economica. Pierre Schoeller ama confondersi e confonderci, pedinando il ministro dei trasporti francese nella sua vita quotidiana. L’exercice de l’état è un enigma, un gioco al rimpiattino in cui per tracciare una figura lo spettatore deve unire i puntini. È una tendenza di molto cinema francese contemporaneo (Audiard in primis). E di figure se ne trovano tante: lo scollamento tra uomini di politica e gente comune, il contrasto tra retorica e discorsi privati, i meccanismi secondo i quali il potere si perpetua e si rigenera, la sua intrinseca amoralità.
Bertrand Saint-Jean, ministro dei trasporti francese, è una personaggio la cui etica e coerenza è totalmente sottomessa alle logiche politiche, trattato in malo modo dai superiori e ipocritamente da chi nella gerarchia sociale sta sotto di lui. Marito e padre assente, Bertrand è il simbolo di una classe politica col paraocchi, che accusa lo stress ma non capisce il dolore altrui, che non vede anche quando vorrebbe vedere (basti pensare alla scena della roulotte).
L’Exercice de l’état crea un personaggio originale e sfaccettato, avanzando per frammenti, senza distacco né sentimentalismo, senza spettacolarizzazione né didascalismo, senza questo e senza quest’altro, perché non volevo fare questo ma neanche quest’altro, volevo evitare questo e non volevo che dopo il pubblico discutesse di quest’altro. Un pericoloso smarcamento continuo, un film strisciante che presuppone uno spettatore pronto a inseguirlo.