Di fronte a Vijay – Il mio amico indiano, il nuovo film di Sam Garbarski, tirare in ballo Pirandello è la cosa più immediata che ci sia. Forse però, dopo un’attenta analisi, è bene dimenticare subito lo scrittore siciliano perché malgrado il tema della maschera, la riflessione sulla crisi dell’io e sul tema a volte troppo abusato nel cinema del vedersi vivere (e anche morire), il registro scelto da Garbarski attinge a piene mani alla commedia piuttosto che all’umorismo e manifesta la devozione del regista nei confronti della grande tradizione della commedia classica hollywoodiana.
Il motore della trama è l’equivoco che nasce dalla casualità di un evento inaspettato. Willy è un attore di origine tedesca che lavora a New York, disilluso e frustrato per non essere riuscito a fare la carriera che aveva sognato. Giunto ai quarant’anni si ritiene un uomo insoddisfatto, sia professionalmente (è conosciuto da tutti solo per indossare l’enorme maschera-costume di un coniglietto di peluche molto amato dai bambini), sia sentimentalmente, con una moglie e una figlia che sente distanti. La sua macchina, appena rubata, viene coinvolta in un incidente, prende fuoco e tutti credono che Willy sia morto. La coincidenza del fatto luttuoso spinge il protagonista a giocare con la sua morte. Decide così, con l’aiuto del suo migliore amico, di travestirsi da Vijay, un ricco e misterioso indiano, per poter assistere al suo funerale e vedere le reazioni dei suoi cari di fronte alla sua dipartita.
È questo lo spunto iniziale di un film che non abbandona mai il registro della leggerezza e viene costruito attorno alla combinazione tra più livelli di messainscena, in un rimando di specchi che rende incerto il confine tra realtà (seppur filtrata attraverso il mezzo cinematografico) e finzione. Il primo livello è quello di partenza, Willy e la sua famiglia, Willy e il suo lavoro, Willy e la maschera del suo pupazzo che sbatte contro il muro della consapevolezza, contro una vita insoddisfatta e inappagata; il secondo livello della messainscena coincide con il travestimento di Willy in Vijay e inizia con il funerale di Willy a cui assiste Vijay. Il travestimento continua e diventa inganno: Vijay seduce la vedova di Willy e inizia con lei una relazione, mantenendo incerto e complesso il rapporto tra menzogna e verità. Il terzo livello è quello della soluzione finale, che mischia i due livelli precedenti e fugge al lieto fine, con la maschera di Vijay che avrà il sopravvento sul volto vero di Willy.
Il merito di Garbarski è di aver costruito un film raffinato all’interno di una cornice convenzionale, che non spiazza il fruitore. Il terreno è quello della commedia classica e i rapporti con la tradizione sono chiari fin dall’inizio: il tema del doppio rimanda inesorabilmente a Lubitsch, così come il sottile gioco di maschere ed equivoci apre il confronto con il miglior Wilder, quello di A qualcuno piace caldo e di Irma la dolce.
E se siamo distanti da quell’umanità dolorante ma di grande dignità mostrata in Irina Palm, il film di esordio di Garbarski, emerge senza dubbio il tentativo di riflettere sull’ipocrisia dell’individuo. Alla fine, nel sottile gioco di incastri basato sulla menzogna, rimane la consapevolezza, secondo il regista di origine tedesca (proprio come il suo personaggio) che per piacere alla gente, bisogna essere diversi da quelli che realmente siamo: la maschera sociale ha vinto e in un mondo di apparenza, la domanda sorge spontanea: quale spazio resta all’autenticità?