La Costa Azzurra di Vulnerabili (Espèces menaceés) si connota di atmosfere agli antipodi rispetto a quelle fulgide emanate dalle immagini del Renoir diretto e fotografato dagli stessi Gilles Bourdos e Ping Bin Lee che, in questo film presentato a Venezia nel 2017, ora tra le poche novità al cinema grazie alla distribuzione coraggiosa di Movies Inspired, confermano la capacità di far corrispondere all’eco interiore di personaggi sempre invischiati in relazioni familiari problematiche il tono e le tonalità della messa in scena, qui fatalmente allungata su di loro come un’ombra oppure una scia, che invece di seguirli o precederli, li insegue.
Rossa infatti del sangue che Josephine (Alice Isaaz) verserà, la vernice spray è subito liberata nell’aria, colora le strade di Nizza nella notte del matrimonio di lei con Tomasz (Vincent Rottiers), mentre l’energica regia di Bourdos precipita la freschezza dell’eros in un vortice di perversione che non lascia all’immaginazione lo spazio di supporre quel destino di violenza che è già tangibile nell’inquietudine asfissiante della camera d’albergo, teatro delle prime ossessioni e dei primi abusi. L’estetica pop sostenuta dalla colonna musicale e dalle tinte forti degli istanti iniziali dialoga allora con la memoria della Nouvelle Vague per stabilire inequivocabilmente il registro stilistico su cui si articolerà il film: le molestie psicologiche in cui sfocia il gioco di indovinelli tra Isaaz e Rottiers, comunque avvolti in un’antinaturalistica luce aranciata, altro non sono che l’esito nostalgico più cupo delle conversazioni inconcludenti tra Seberg e Belmondo.
C’è pure il colpo di pistola alla schiena, ma passerà per il mosaico di storie e personaggi che espande Vulnerabili entro un orizzonte polifonico in cui diversamente e più volte si declinano i nuclei tematici della storyline principale: i rapporti di potere che condizionano i legami, il focus particolare sulla criticità delle dinamiche genitori/figli. Il dramma di Josephine infatti è duplice: all’illusione d’amore posta a coprire i maltrattamenti subiti dal marito, fa da contraltare la consapevolezza che non avrà risposta la richiesta d’aiuto rivolta a una madre e a un padre a lungo incapaci di guidarla, dunque inermi nel proteggerla.
A equilibrare l’enfasi di questi accenti tragici intervengono l’attitudine alla leggerezza di Vincent, neo-vicino della coppia appena separatosi dalla moglie e alle prese con una figlia incinta di un uomo molto più grande di lei (anche molto più grande di lui, il padre), e la dolce, triste solitudine di Anthony, studente universitario reduce da una storia finita male che gli ha procurato non pochi problemi con l’altro sesso, e con sua madre, ricoverata in un centro psichiatrico dopo essere stata abbandonata dal marito per una compagna più giovane.
Dell’abbandono, in ogni caso, hanno paura tutti, uomini e donne di una “specie a rischio” che Bourdos mette insieme con fare demiurgico trasponendo alcuni racconti dello statunitense Richard Bausch in una casualità d’incontri riempiti di senso da chi guarda, uno spettatore che, dentro e fuori l’universo narrativo, non può sottrarsi all’angoscia della partecipazione emotiva, allo stesso tempo però straniato perché conscio delle corrispondenze tematiche.
Il lavoro di Bourdos sulla focalizzazione è insomma notevole, e ricorda – anzi anticipa – la consapevolezza di scrittura e l’esibizione dell’artificio del Bedos del pure corale La Belle Époque.
Peccato che il (forse) lieto fine risulti da un tracollo degli equilibri non altrettanto organico: la svolta che si vorrebbe catartica è affidata a una scena dal simbolismo espressionista che, se certo riflette una delle anime della messa in scena, fa apparire posticcia la risoluzione conciliante.
Preso atto di un’incertezza espressiva sul finale, di Vulnerabili resta però il doloroso senso di riconoscimento personale nella caduta collettiva, e l’indicazione del pastiche come strumento linguistico per osservarla da una distanza critica.