La rappresentazione del voyeurismo nel Cinema si basa sulla nostra capacità di identificazione con il punto di vista del personaggio. Per decenni il dispositivo ha tradotto un assunto freudiano che confinava questa logica nell’ambito maschile, assegnando l’attività dello sguardo ad un territorio regolato da dinamiche di genere, dove lo spazio disponibile per le donne era quello dell’oggetto osservato. Dalle finestre Hitchcockiane ai dispositivi di ripresa di Powell che inquadrano e trafiggono, la cornice metadiscorsiva svela, in abisso, la presenza di una consapevolezza riflessiva che mette a nudo il discorso sul discorso in atto, ovvero di tutti quegli elementi linguistici che rivelano la presenza dell’autore, mentre si rivolge al destinatario. Manifestazione di un fenomeno molto più ampio e antico del metacinema stesso, l’atto di riflettere sulla costruzione linguistica del testo, non è una prassi neutra né ontologica, ma veicolo ideologico che può spezzare gli argini di un contesto circoscritto, solo se i soggetti in gioco, riconfigurano continuamente ruoli e posizioni, nell’atto stesso di giocarsi o di guardarsi. Può allora negare la sua stessa trasparenza la metarappresentazione, se quello spessore tra finzione e vita, codici della realtà ed elementi onirici, sconfinano a tal punto da aumentare lo spessore dell’opacità.
Chloe Okuno sfrutta consapevolmente più livelli di indecidibilità nella costruzione dello sguardo come marcatore che delinea i confini narrativi del suo primo lungometraggio. Per costruzione dello sguardo intendiamo un’assunzione attiva in grado di corrodere la determinazione assoluta e repressiva del testo “noir”, quando questo fa coincidere lo spazio senza uscita della vittima, con l’impossibilità di mettere in gioco uno sguardo contrario e vitale.
Non è la prima a lavorare sulla figura del voyeur in modo da disattenderne immobilità e statuto, e non è infatti possibile parlare di Watcher senza riferirsi a “In the Cut” di Jane Campion, “Red Road” di Andrea Arnold, ma anche alla PJ Harvey di Black Hearted Love, racconto oscuro del desiderio, dove Polly esce dallo spazio della finestra-schermo per guardarci dentro e assecondare una spinta estatica e pulsionale.
Rispetto a questi esempi, dove il cuore nero delle figure femminili rende instabili i piani di lettura dell’immagine prima ancora di ribaltarli, Okuno segue il processo di consapevolezza del soggetto-vittima fino allo scollamento dal plotone d’esecuzione dell’occhio maschile, tanto da scegliere una via più simmetrica. Complice l’architettura visuale studiata da Nora Dumitrescu e una Bucarest immersa nel gelo fotografico di Benjamin Kirk Nielsen, il disorientamento di Julia viene costruito sulle caratteristiche più sfuggenti e sonnamboliche di Maika Monroe, nel film attrice fuori da qualsiasi ruolo, costretta in quello della moglie devota che segue le necessità professionali del marito.
Gli spazi sono quelli di una città descritta da una prospettiva anamorfica, che amplificano il senso di isolamento e la vulnerabilità. Okuno segue quindi i parametri dell’alienazione polanskiana, sostituendo il senso di claustrofobia con il dominio dello spazio architettonico sulla presenza umana.
Julia è sempre costretta a proteggersi da un appartamento troppo esteso e con finestre amplissime, fugge negli ampi spazi del museo dove le viene perentoriamente impedito di fotografare, percepisce ogni sguardo potenziale nella metro deserta, scompare nelle interazioni sociali minime a causa dell’ostacolo linguistico e di una bellezza che sembra l’unica qualità spendibile anche per i colleghi di lavoro del marito.
In questa progressiva delegittimazione della sua identità, l’attività di uno stalker che la spia dalla finestra antistante e la pedina per strada, diventa l’occasione traumatica per uscire dal cono d’ombra, attraverso l’individuazione concreta di quello sguardo che quotidianamente le impedisce di esistere.
Ombra e apparenza fantasmatica senza ancora un volto, l’occhio oggettivante fa emergere tutte le altre cosificazioni, manifestate attraverso la negazione di un isolamento psichico e sociale concreto. L’occhio che la spia senza sosta deve per forza esser frutto illusorio della sua fantasia dal momento in cui il voyeurismo invasivo che la circonda sembra far parte di una quotidianità codificata e accettata.
Okuno dissemina il film di piccoli eventi che violano lo spazio privato, ribaltando la prospettiva secondo la quale questi potrebbero emergere come ossessioni di una psiche alterata. Suggerisce quindi un allineamento tra l’attività dello stalker con i dispositivi linguistici e culturali che confinano l’identità femminile in uno spazio secluso e già osservato.
L’unico mezzo per sottrarsi a questo spettacolo condiviso, è vedersi improvvisamente visti e offrire al proprio potenziale assassino uno statuto corporeo, incarnando il suo stesso sguardo. Una chiave di lettura esplicita Okuno la fornisce nell’improvvisa acquisizione dei mezzi di produzione dell’immagine che Julia può esperire, quando le viene consentito di verificare i video registrati dai dispositivi di sorveglianza di un supermercato. Il campo-controcampo ricostruito dall’occhio disincarnato delle videocamere ambientali separa le due attività dello sguardo e colloca lo stalker in un’area osservabile, mentre Julia lo spia dall’oblò delle cucine dove si è rifugiata. Prospettiva apparentemente ribaltata, ma che subisce un disinnesco violento quando il marito e il tecnico che guardano le immagini insieme alla donna, ne indirizzano il significato, individuando nella volontà di Julia le potenzialità di un’azione ostile. Dal momento in cui il senso della violazione non sembra scindibile da una ricostruzione ideologica degli eventi, Julia non può far altro che prendersi un brandello di immagine e fotografare quell’ombra digitale con il suo smartphone.
Da qui in poi, Watcher traccia lo stalking come tentativo di riappropriazione del proprio spazio percettivo a partire dalla dinamica del pedinamento. Per Julia è la tragica necessità di uscire dall’inquadratura, spezzare i margini della cornice per desautorare il voyeur dalla propria posizione. Ma chi è il voyeur, o meglio, cos’è se non lo sguardo complessivo di un sistema sociale e segnico che ha codificato spazi e interazioni transmediali come sublimazione del sezionamento autoptico compiuto da un assassino? I brandelli delle vittime decapitate dal Ragno, il killer seriale che occupa i notiziari televisivi e le conversazioni triviali a tavola, definiscono la penetrazione della violenza nel lessico famigliare insieme alla normalizzazione del corpo femminile fatto a pezzi. Da questa esplicitazione, Okuno desume un approccio più ellittico e subliminale, inquadrando borse della spesa, l’incubo del soffocamento mediante sacchi di plastica, dettagli apparentemente insignificanti che sembrano nascondere il corpo femminile smembrato come rimosso osceno e degradato, eppure inscritto nell’immaginario quotidiano.
Simmetrico dicevamo, perché le scelte della regista americana, partono da una ridefinizione dello spazio urbano e privato, secondo coordinate ben precise, legate all’ipervisibilità delle superfici architettoniche più esposte, fermandosi un attimo prima rispetto alla discesa nei recessi. Se Jane Campion per “In the Cut”, si serviva della fotografia di Dion Beebe per esasperare le caratteristiche centrifughe della visione periferica, mantenendo una costante instabilità nello scambio tra vedere ed essere visti, Watcher tiene insieme questa tensione, attraverso la dinamica del rovesciamento e con il rischio quindi di alcune forzature didascaliche sin troppo chiare nell’orchestrazione drammaturgica, scritta e definita al millimetro.
Rimane la forza dello spaesamento, abitato con grande intensità da Maika Monroe nel suo peregrinare dolente negli spazi di una città aliena, vero e proprio mostro freddo, che isola la dimensione visuale e annichilisce lo sguardo, come assunzione del punto di vista e della propria storia personale.
Watcher di Chloe Okuno (USA 2022, 91 min)
Interpreti: Maika Monroe, Burn Gorman, Karl Glusman, Madalina Anea, Stefan Iancu, Daniel Nuta, Ciubuciu Bogdan Alexandru
Sceneggiatura: Chloe Okuno e Zack Ford
Fotografia: Benjamin Kirk Nielsen
Montaggio: Michael Block
Materiali fotografici: forniti da ufficio stampa Lucky Red / Alessandra Tieri