martedì, Novembre 5, 2024

Waves di Trey Edward Shults, Festa del Cinema di Roma: recensione

La A24, casa di distribuzione e produzione cinematografica newyorkese nata solo nel 2012, non ha smesso di essere negli anni garanzia di una certa idea di qualità poggiata su una costante ricerca formale a costruzione di una straordinaria coerenza estetica.
Waves aderisce completamente a una direttrice che a partire degli eccessi di Spring Breakers, passando per il premio Oscar vinto nel 2017 da Moonlight, porta il marchio alla quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma con The Farewell di Lulu Wang e Share di Pippa Bianco, oltre che con questo terzo lungometraggio a tratti teoricamente visionario dell’appena trentenne Trey Edward Shults.

Si tratta proprio di un film che guarda da una parte all’esuberanza borderline di Korine, dall’altra alla messa in scena contrastata dei corpi black e dei rapporti umani realizzata da Jenkins, per rifondare attraverso l’originalità tecnica la storia tutta e senza fine americana della caduta di una famiglia le cui solidità e fortuna poggiano su un piedistallo di illusioni.

La macchina da presa è infatti il corpo mobile, il personaggio altro che disegna la traiettoria tesa all’inevitabile implosione di quegli attanti inseguiti e risucchiati da interminabili carrelli che ne doppiano le distanze mantenendo su di loro un vantaggio cognitivo; la regia entra di petto nella diegesi per connotare la narrazione di un senso di vertigine che prelude allo schianto disastroso in cui, con risonanza sconcertante, si infrange Waves, spartito simmetricamente nei due blocchi tematici del prima e del dopo il tracollo.

Prima, a fungere da perno narrativo c’è Tyler (Kelvin Harrison Jr), promettente campione di wrestling del team scolastico. Vortici di panoramiche e long take danno la misura dell’eccitazione adolescenziale mentre il missaggio sonoro insinua il presentimento delle ossa spezzate, l’attesa di una frattura totale più che fisicamente localizzata.

Attorno a lui Alexis, primo amore dolcissimo e tragicamente violento; Emily, sorella complice ma dinamica solo nello spazio della sua ombra; una madre adorata insieme al fantasma di quella biologica e un padre buono ma problematico che nasconde la proiezione delle proprie ambizioni sui successi del figlio dietro la retorica del coach.

La rottura degli equilibri ispessisce la sagoma di ognuno di essi, ne approfondisce i lineamenti costringendoli a confrontarsi con l’improvvisa enormità di una posta in gioco che necessita il loro ripensamento nello spazio relazionale della casa come luogo solido della famiglia.

Dopo, allora, è Emily (Taylor Russel) a uscirne finalmente facendosi carico del baricentro del film, trascinandolo lontano per miglia, in un viaggio di scoperta della propria autonomia sentimentale e di riscoperta del dolore attraverso gli occhi dell’altro – un Lucas Hedges trasformista, centratissimo come nel pure festivaliero Honey Boy.

Il collante che tiene ancorata la riflessività di questo controcanto all’impeto rissoso del primo tempo è un’“ouverture” rispondente composta da Trent Reznor e Atticus Ross; ancor di più, il lavoro fenomenale svolto da Drew Daniels, d’intesa con le scelte registiche, sulla fotografia. L’accostamento cromatico preponderante di blu e rossi fluo, tra ricerca di armonie e carnalità aggressiva, elettrizza i piani nell’alternanza abbacinante di neon e onde lucenti.

Ovunque, waves.

Veronica Canalini
Veronica Canalini
Critica Cinematografica iscritta al SNCCI. Si anche classificata al secondo posto al concorso di critica cinematografica “Genere femminile: quando le donne criticano il cinema” indetto da Artemedia, oltre a scrivere di Cinema per Indie-eye, si è occupata di critica letteraria per il Corriere del Conero.

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