domenica, Dicembre 22, 2024

We are your friends di Max Joseph: la recensione

Nello stesso modo in cui il collage ha sostituito la pittura ad olio, il tubo catodico sostituirà la tela. Un giorno gli artisti lavoreranno con i condensatori, le resistenze e i semiconduttori al posto dei pennelli” (Nam Jun Paik, 1965)

I went back home got a brand new face | For the boys on mtv | But today the way i play the game has got to change (George Michael, Freedom ’90)

Negli anni ’90 dei videoclip l’acquisizione di un confine, quello che delineava maestranze e autori dalla forte identità riconoscibili fuori e dentro la politica di MTV, avvia un processo centrifugo rispetto all’idea di contenitore tematico, riconfigurando regole e prassi creative, oltre a ricreare quello stesso contenitore nel percorso di rimediazione dei supporti “home”. La serie Directors Label arriva nel 2003, e fuori dalla heavy rotation costituisce un recinto visibile, antologico e commerciabile di quell’aura autoriale che alcuni videasti si erano ritagliati a partire dal decennio precedente. Tra questi, Mark Romanek, già inserito con la sua prima clip tra gli autori che costituivano l’insieme del progetto Infected voluto da Matt Johnson, oggetto alieno e liminale che viveva smembrato dentro il palinsesto di MTV e allo stesso tempo in una forma unitaria nel “visual album” diffuso a partire dal 1986 su supporto VHS e VCD ripensando la DEVOVISION dei DEVO e 27 anni prima della geniale operazione di miss Knowles-Carter  sul confine tra dispersione virale e coesione narrativa, dimensione pubblica e vita privata.

Il lavoro di David Fincher sull’immaginario iconico di George Michael nel video di Freedom ’90, incluso il giubbotto di pelle incendiato,  è una  messa in abisso della propria immagine pop, in aperta opposizione alle regole narrative imposte da MTV, e già verso quella libertà  di assorbimento di nuovi mezzi, nuove forme, nuove combinazioni espressive, dalla computer grafica in via di sviluppo  fino alla qualità  “vietata” della bassa definizione, in un dialogo con il passato che era, ed è tutt’ora, più sincronico di quello che si può immaginare.

È del 1990 la clip di Velouria dei Pixies, vero e proprio anti-video mai mandato in onda, che come scrivevamo, scarnifica le leggi produttive di MTV in una forma aspra e brutale operando una sovrapposizione tra la funzione surrogale dei promo video dei settanta in forma quasi parodica, con il rovesciamento di quell’immagine fortemente “voluta” dalle televisioni tematiche.

Quattro anni dopo esce Reality Bites di Ben Stiller, lavoro realizzato letteralmente sul bordo dell’estetica MTV, dove la riappropriazione del punto di vista con un occhio puntato all’indietro sull’umanità dei personaggi creati da John Hughes, diventa centrale nello stesso modo in cui lo sguardo lanciato oltre l’ultra realtà del digitale, cerca di affermare la stessa volontà di riappropriazione nell’altrettanto centrale I sogni segreti di Walter Mitty. Quelli di Stiller sono entrambi film che abitano uno spazio di transito, delineando i confini di un’area di resistenza tra cinema e nuovi media, a distanza di venti anni l’uno dall’altro.

Il film di Max Joseph, sembra inscriversi in quel processo di scambio tra suono e immagine che è già stato superato, giusto per fare alcuni esempi, dalle forme ec-centriche dei videoclip in termini di durata e di innesti, da qualsiasi video realizzato dal talentuoso Jonathan Desbiens, dalle sperimentazioni 3d mapping nelle performance live, dove il disegno digitale su ambienti e corpi, oltre a rivestire i contorni del dancefloor e dello spazio performativo, unisce spazio reale e dimensione virtuale in uno scambio continuo tra beat e immagine, bpm e corpi, ritmo e animazione digitale; a questo proposito è sufficiente ricordare, proprio nell’ambito della club culture a cui il film di Max Joseph si riferisce, il lavoro del collettivo Rabbitkillerz fatto nei club di mezzo mondo per Kavinsky, Digitalism, David Guetta.

RabbitKillez – Audio ondes

https://www.youtube.com/watch?v=Nuse5QD_uYQ

Tornando indietro, ma tenendo presende il sogno di una “musica cromatica” per come l’avevano immaginata i futuristi Ginna e Corra, Sign o’ the times di Prince, viene realizzato  da MTV nel 1987, in seguito al rifiuto dell’artista di Minneapolis a veicolare promozionalmente il brano. È una clip che interpreta il suono attraverso l’immagine e che prima ancora dei proclami di George Michael, subordina la centralità del performer all’immagine del ritmo, riducendo a sua volta l’immagine a segno, riferendosi ad un lungo scambio semantico che include i cartelli tenuti in mano dal Dylan filmato da Pennebacker, fino all’optical art di Saul Bass e ancora indietro ai Ko-Ko Song Car-Tunes dei fratelli Fleischer, alla musica illustrata, alle intuizioni dei già citati Ginna e Corra oltre a quelle su rythme coloré di Léopold Survage, e ancora in avanti verso il futuro, suggerendo i recenti linotipi cinetici alla base dell’esplosione Lyric Video degli ultimi anni, che in quello più recente di David Bowie,  “Sue (or in Season of Crime)”, Tom Hingston e Jimmy King hanno utilizzato a partire dalle sperimentazioni sul lettering di Jona­than Barn­brook in una sovrapposizione tra motivi grafici e set, corpo e segno virtuale, che è anche cancellazione, scar-facing: cicatrice tra due mondi.

Il film di Max Joseph in un certo senso cerca di individuare questa stessa cicatrice nella relazione tra realtà 3.0 e non 2.0, come ci è capitato di leggere in alcune recensioni un po’ cialtrone; soprattutto se per 3.0, nella definizione che ne da anche Conrad Wolfram, si intende la diffusione della rete internet fuori dai confini fisici dell’interfaccia unica verso l’onnipresenza dei dispositivi connessi, dagli smarthpone agli automotive, fino a qualsiasi oggetto consumer e privato che espanda il concetto di spazio individuale, quando al contrario, 2.0 è un concetto che incorpora 1.0, proprio nel modo in cui entrambi, in modo diverso e opposto in termini di relazione con gli applicativi, rimangono ancora intrappolati entro i confini dello schermo-computer.

Il rapporto tra il vecchio producer (Wes Bentley) e Cole (Zac Efron) si delinea proprio nella ri-messa in scena del conflitto tra laptop music e un’accezione del campionamento ancora in grado di individuare nella produzione di suoni attraverso gli strumenti analogici un dialogo possibile con il passato che consideri l’incorporamento rispetto alla sostituzione (il synth modulare usato da Bowie per Space Oddity, la batteria acustica, il Wurlitzer)

Lo smartphone, la consolle, il notebook, diventano portali tra il mondo digitale e una relazione di tipo tattile con il dancefloor, tanto che Max Joseph ci prova ad inserire animazioni, Kinetic Typography, e anche una versione psicotropa della mappatura corporea attraverso l’invasione dei colori digitali, come propaggine di una lunga storia di video “pittorici” (la sequenza prende vita dalla contemplazione di un’immagine statica appesa alla parete) che da Nam Jun Paik passa da Steve Barron, arriva sino ai video di Kinga Burza, incluse alcune sorprendenti anomalie contemporanee come il lavoro di Dirk Koi, insegnante di comunicazione visiva a Basilea, che tra i suoi esperimenti di video-pittura ha realizzato l’incredibile Tunnel Temporale per la techno dello svizzero Boris Blank, avvicinandosi all’astrazione di certe motion graphics senza alcun utilizzo di manipolazione CGI e allo stesso tempo riconnettendosi idealmente agli studi sul movimento del cinema DADA, recuperandone l’idea come cinema anche dei corpi oltre che dell’occhio, intuizione già intravista dal lavoro di La La La Human Steps con Louise Lecavalier in quella rilettura di Entr’acte che era Infante c’est destroy.

Che We are your friends sia quindi un film “centrale” nello scambio tra suono e personaggi, in una direzione in cui il primo dovrebbe assumere un ruolo generativo per i secondi, oltre che eccessiva è un’ipotesi del tutto paradossale, proprio perché Max Joseph non ha sufficiente coraggio per oltrepassare la separazione dialettica tra i due elementi, perdendosi in una riproposizione lontana anni luce da quei contesti che abbiamo già citato e dove si sperimenta la compenetrazione tra più livelli di realtà; è molto più doloroso e sottile il lavoro fatto da Ben C. Lucas (Wasted on the young), Emanuelle Bercot, certamente Mia Hansen-Løve (Eden, di cui parleremo presto in modo approfondito) ma anche il documentario di Karmakar su Villalobos, che entra dentro quello stesso passaggio di cui parla il film di Max Joseph, con la persistenza dello sguardo documentale.

In We are your friends tutto è indirizzato soggettivamente in modo chiarissimo, persino il battito cardiaco della corsa che all’instabilità degli smartphone sostituisce d’improvviso la dimensione dell’ascolto tra i rumori della natura, suggerendo una relazione tra personaggi, immagine e ritmo che ricorda il rapporto tra immagine psicotropa e distorsione nei peggiori film di Danny Boyle, ovvero con un procedimento che si serve della versione più triviale di analogia.

Proprio in termini sinestetici, già il cinema di Germaine Dulac e quello di Mike Nichols, immaginavano da diverse prospettive il suono attraverso la ripetizione, la sovrimpressione, il montaggio e il ritmo interno all’immagine per quanto riguarda la prima, mentre il secondo tendeva al  “suono del silenzio” in quella sequenza del Laureato dove il montaggio di Sam O’Steen dialogava con le liriche di Simon & Garfunkel in uno scambio tra immagine, suono e testo che perdeva le qualità sonore e ritmiche delle sinfonie visive create dalla Dulac.

Max Joseph ci prova a lavorare sulla confluenza tra media, cercando da una parte di costruire un groove che dai bpm attraversi il corpo per trainare la narrazione con il battito, ma sceglie una via convenzionalissima sottolineando costantemente questo aspetto. Più interessanti alcune aritmie che dall’ipertrofia ruffiana delle grafiche passano all’improvviso svuotamento del ritmo con una California illuminata a giorno, ville deserte da dopo festa, piscine senz’acqua.

Max Joseph, secondo un’idea a cui tra l’altro allude attraverso il pistolotto di James sulla verità dei suoni nel passaggio da analogico a digitale, si infila in un discorso già superato da un continuo scambio semantico tra suono e immagine. Proprio nei confini senza soluzione di continuità di questo stesso scambio, basterebbero i quindici minuti di Umshini Wam diretti da Harmony Korine per spazzare via questo piccolo film.

Approfondimenti

A-ritmie del tempo: i videoclip e il tempo nell’immagine (Michele Faggi)

Ninian Doff – “i video musicali oggi occupano una posizione di frontiera” – l’intervista (Michele Faggi)

Storytelling on the Ledge: “Telephone” and “Paparazzi” – Lady Gaga (Carol Vernallis)

Videoclip -Workshop (prima parte) a cura di Michele Faggi – (streaming parziale del workshop parte del progetto Open Univercity, realizzato nell’ambito dei Servizi agli studenti nei Comuni sedi di Università, promosso e sostenuto dal Dipartimento della Gioventù – Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall’ Anci.)

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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