Preceduto da un ansimare vicino al rantolo, il primo oggetto ad entrare in scena, ripreso sul bordo di uno sperone roccioso a strapiombo sul precipizio, è un vecchio e malandato scarpone, seguito dal primo piano su un alluce sanguinolento con unghia ormai inservibile.
E’ l’alluce di Cheryl, alias Reese Witherspoon, alias marchio a fuoco di un road movie into the wild con cui Cheryl Strayed, autrice di Wild – Una storia selvaggia di avventura e rinascita, è passata dalle pagine di carta alle nominations per ogni genere di premio che Reese Witherspoon, interprete del film, ha collezionato, dall’Oscar in giù.
Autobiografia best-seller da cui l’America è uscita galvanizzata (normale per una società che oscilla tra bulimici assalti alla dispensa e jogging ossessivi tra lindi vialetti e praticelli ben pettinati), si pone sulla scia dei racconti di viaggio che, purchè fatti a piedi e nelle condizioni più estreme, alla ricerca di sé o di qualcosa che gli assomigli, oggi riescono a ipnotizzare le masse più di quelli sulla Luna.
Ma, attenzione, deve trattarsi di impresa selvaggia, miglia su miglia nel deserto, fra le nevi, a guadar fiumi, a guatar negli occhi animali selvaggi sperando che cambino rotta, nelle condizioni più assurde, superando sfide disumane, purchè la meta sia la salvezza (su questa terra, s’intende).
Cosa poi accada nel residuo di vita di questi globe-trotters sarebbe interessante saperlo, ma forse non altrettanto pittoresco.
Da Ulisse in poi il tema del viaggio ha sempre affascinato l’uomo occidentale, ma non sempre sono arrivati Omero, Dante o Joyce a raccontarci com’è andata.
Questa volta è toccato a Jean-Marc Vallée che, munito di mdp, ha seguito per due mesi la nostra Cheryl/Reese lungo le strade (si fa per dire) del PCT, Pacific Crest Trail, il cammino, a detta di tutti gli esperti, più maledettamente difficile che ci sia in America: 1600 miglia o forse più, i numeri variano, dal confine del Messico al Canada. Soli, disperatamente soli, qualche presidio qua e là lungo il percorso dove far arrivare per posta generi di soccorso (grande America! Da noi il servizio postale ce lo sognamo anche per la corrispondenza normale!), qualche automobilista da incrociare lungo una di quelle loro strade nel deserto che vanno verso il vuoto per chiedergli un passaggio in situazioni limite, ma per il resto soli, e sempre a rischio vita.
Questo è il cammino. Alle spalle dev’esserci, beninteso, una vita ad alto potenziale suicida. Famiglia a pezzi, madre amata ma più svitata della figlia che muore troppo giovane di cancro, padre violento finito chissà dove lasciando macerie, fratello poco meno che scemo irresponsabile, droga iniettata dovunque ci sia uno spazio libero, sesso quando, come e con chi capita, un marito che sarebbe tanto caro, ma con cui proprio non va.
Non serve di più. Si prende lo zaino più grande che c’è (lo chiamavano il Mostro quelli che la incontravano), lo si carica di tutto l’inutile che c’è, compresi libri di pesantissima carta, mica tolino e e-book! ( tanto qualcuno lungo la strada che l’aiuti a fare un po’ d’ordine c’è sempre, magari un saggio signore dai capelli bianchi) e via così fino alla meta, peggio di Cappuccetto Rosso, (che almeno non aveva canzoncine da canticchiare continuamente e flash back a rompere il transfert con la natura).
Wild dimostra al mondo intero che il bisogno di favole non finirà mai, un tempo davanti al focolare oggi al cinema, cambiano i mezzi e i modi, le storie no.
Ma le favole bisogna saperle raccontare, l’immaginario mitico dell’uomo è molto esigente, con Odisseo davanti a Polifemo c’eravamo anche noi, con Ulisse davanti alla montagna bruna per la distanza anche. Con Cheryl sulle creste del Pacifico no, restiamo incollati alla poltrona.
Jean-Marc Vallée stavolta non osa e affronta il mostro con uno spillo. Eppure ci aveva abituati bene, ancora ce l’abbiamo negli occhi il ghigno di Ron, i suoi “occhi fuori dalle orbite, zigomi che gli bucano la pelle e sette anni di vita in regalo” che il magnifico McConaughey sbatteva in primo piano in Dallas Buyers Club.
Non è neanche una piccola Dersu Uzala della taiga siberiana la nostra Cheryl, i racconti di Arseniev nella jungla di Ussuri filmati da Kurosawa sono un mito lontano! Cheryl/Reese è una diva di Hollywood, belloccia anzichenò, che gioca a far la tosta/finto/fragile fanciulla americana che non ce la fa più.
E allora, invece di darsi al volontariato e andare a scavar pozzi in Africa, decide di fare la cosa più inutile che c’è: la traversata a piedi di un pezzo di terra che fino ad allora ha fatto tranquillamente a meno di lei. Di tappa in tappa, di canzone in canzone, arriverà ai titoli di coda, dove Simon e Garfunkel possono finalmente cantarla tutta.
Vallée, a sua volta galvanizzato da tanta impresa, le sta alle costole neanche fosse Lutero lungo la via Francigena, ne spia ogni gesto, ogni pur minimo pensiero, ogni ricordo le frulli per la mente. Così facendo ne spezzetta la vita e la getta lungo il cammino in continui flash come le briciole di Pollicino, dimenticando di fare la cosa migliore, lasciar spazio al soffio selvaggio del pianeta Terra, al suo respiro immortale, ai suoi stupendi, terribili scenari, qui ridotti a cartoline turistiche.
Cheryl è come schiacciata lì dove invece potrebbe lievitare, se solo ci fosse stata una fantasia adeguatamente poetica a farglielo fare.