Dopo Marylin, Simon Curtis torna alla sua materia preferita: l’agiografia. Woman in Gold condivide con il film precedente l’impiego di un’attrice capace di catalizzare tutti i momenti migliori, così da lasciare al regista londinese le mansioni di un semplice arredatore. La vicenda è quella di Maria Altmann, ebrea emigrata dall’Austria agli Stati Uniti in seguito alle persecuzioni naziste. Alle spalle oltre alla famiglia, si lascia il ricordo di Adele Boch-Bauer, la splendida zia che fece da modella a Gustav Klimt per due dipinti realizzati nel 1907, ovvero nel periodo conclusivo della cosidetta fase dorata. Ma i ricordi indelebili di Maria si legano anche alla confisca degli oggetti di famiglia, inclusi i dipinti klimtiani, sottratti illegalmente durante i saccheggi abusivi dei nazisti e in seguito esposti al Castello del Belvedere a Vienna. Attraverso un giovane avvocato, discendente del compositore austriaco Arnold Schönberg, anch’egli naturalizzato statunitense e la cui famiglia era in contatto con quella della donna, Maria tenterà la strada della restituzione attraverso una causa legale.
Tutto il film di Curtis sta dentro questi confini, tra flashback della vita austriaca di Maria, l’ambizione etica dell’avvocato Randol Schönberg (Ryan Reynolds) che supera quelle della carriera e un continuo oscillare tra volontà di giustizia e la tentazione di chiudere per sempre con i fantasmi del passato.
Manca, come nel film dedicato a Marylin, la capacità di entrare dentro la vita dei personaggi oltre la cataratta mitologica, costruita ad arte per tenere a distanza qualsiasi verità emotiva, tanto che ci si deve per forza accontentare del talento di Helen Mirren nella sua resa minuziosa di questa commerciante raffinata, con il suo accento “alieno” e l’amore per i dettagli, come il Krapfen al cioccolato tenuto in una mano per prevenire che il cacao si sciolga, mentre Randol se la prende comoda con la macchina.
Ma al di là di queste piccole rifiniture interpretative, delle battute ad effetto e del motto di spirito sarcastico, elementi che congelano la Mirren nello spazio destinato alle caratterizzazioni, Woman in Gold è un film che si polverizza dopo dieci minuti, tanto è piatto nella sua aderenza televisiva ai fatti.
Non è un caso che il trattamento della memoria sia definito da uno spazio isolato da tutto il resto, con il viraggio manieristico dei colori e l’occasione perduta di lavorare sugli oggetti di un passato divelto con la forza. Niente a che vedere con il doppio viaggio di formazione che coinvolge Philomena e Martin Sixsmith. Dal film di Frears Curtis desume lo scheletro esterno, ma senza che i due personaggi scoprano veramente qualcosa con lo sguardo.
C’è un momento nel film, in cui la Mirren entra in una stanza piena di scatole, memorabilia ammassate, frammenti di una vita che non può più tornare. Da una parte il dubbio di Maria sul valore di quei ricordi allude alla possibilità che quello sia il loro reale posto, in mezzo alla polvere, ma allo stesso tempo Curtis non riesce a suggerire alcuna relazione emotiva con gli oggetti materiali del set, limitandosi ad un’amplificazione didascalica e verbale, senza che il cinema abbia mai veramente luogo, per cogliere l’immagine che sta tra le parole e le cose.