martedì, Novembre 5, 2024

Wonder Woman di Patty Jenkins: la recensione

La teogonia Snyderiana prosegue nel secondo film per il cinema diretto da Patty Jenkins, ferma al 2003 con Monster, se si escludono le produzioni televisive a cui la regista americana ha partecipato in questi anni. Wonder Woman osserva la recente Storia politica statunitense in una forma più fragile e didascalica rispetto a Batman v Superman: Dawn of Justice, ma ne replica sostanzialmente la formula, tanto da addomesticare quell’incredibile sovrimpressione di segni attraverso una lente esplicitamente cinefila e manierista.

Tra fantasy, science fiction e cine-comic, la produzione di Snyder si avverte nei rari momenti in cui il film diventa cinema dell’occhio. È sufficiente il dettaglio sull’orologio di Steve Trevor (Chris Pine) per innescare una riflessione sul tempo, oppure le scelte cromatiche che alludono alla plasticità delle Xilografie di Gustave Doré per illustrare, letteralmente e senza note a margine, un mondo sospeso sull’abisso.

Schegge, come il volto finalmente senza maschera del Dr. Maru (una incredibile Elena Anaya) tra Gaston Leroux e Georges Franju, furia surrealista e maniera espressionista. La scrittura “leggera” di uno specialista della commedia televisiva e seriale come Allan Heinberg (The O.C., Gilmore Girls, Sex And The City) occupa tutta la parte centrale del film, giocando sul contrasto tra mondi, il travestimento e la diversa percezione tra culture difficilmente commensurabili, come da tradizione cinematografica statunitense (Billy Wilder, Howard Hawks). 

Quando Diana (la modella israeliana Gal Gadot) si unirà al team degli alleati per penetrare il quartier generale tedesco, si cita Where Eagles Dare spostandolo temporalmente durante il primo conflitto mondiale, cercando di puntare sull’idea positiva di melting pot culturale come genoma fondativo della nazione americana. La squadra costituita da un arabo, un nativo, uno scozzese e una spia britannica viene condotta verso il successo da una donna amazzone che ritrova nel conflitto all’arma bianca del passato la dimensione mitologica dello scontro, una mitologia ancora mostruosamente “umana”. Più del femminismo messo al centro da una critica pretestuosa, un “desiderio” non dissimile da quello del maggiore Thomas Egan (Ethan Hawke) in Good Kill, la cui nostalgia, insieme a quella di Andrew Niccol, guarda sostanzialmente indietro verso il cinema muscolare e verace di Tony Scott. 

E se il male assoluto, prima ancora dell’avvento del nazismo, ha il volto di un lord inglese (David Thewlis), la Jenkins assottiglia qualsiasi possibilità di attivare una suggestione metastorica che avrebbe potuto raccontarci le connessioni tra l’america di Trump e la democrazia hackerata ai tempi della Brexit

Ridotto al minimo anche il concetto di caduta e il combattimento raso-terra che sanciva una diversa fenomenologia dello sguardo nell’ultimo film di Zack Snyder, anche rispetto a formati, dispositivi, modi di concepire la visione. Di quelle intuizioni (ne abbiamo parlato approfonditamente da questa parte) rimane una mimesi di secondo grado, divertente e citazionista, niente di più.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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