Quello che doveva, o almeno poteva, essere un commiato editoriale carico di consapevolezza e pathos superomistico è un prodotto da dimenticare. X-Men: Dark Phoenix è un aggregarsi di scelte formali fiacche e di direzioni narrative non solo mal gestite ma addirittura dannose per il giudizio retrospettivo sulla saga di appartenenza.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f48c42” class=”” size=””]Un pasticcio imbastito per fungere da spettacolo conclusivo per la quadrilogia prequel e per il progetto editoriale targato Fox, incapace però di concludere e allo stesso tempo raccontare una nuova storia.[/perfectpullquote]
Difficile d’altronde sigillare molteplici linee narrative con un racconto complesso come quello della nascita di Fenice Nera, momento tragico nella storia degli X-Men anche già affrontato nella trilogia cinematografica originale. Ancora più difficile farlo scegliendo di impostare i due compiti narrativi – come si è detto sopra, mettere un punto fermo alla continuità seriale con una storia di origini – mediante una rappresentazione dedicata allo scavo psicologico e al dibattito relazionale.
L’intreccio organizzato da Simon Kinberg prova infatti a comunicare il senso della fine e a infiammare l’investimento emotivo mediante una costruzione della scena che, invece di strappare l’assenso ragionando sul balletto d’azione o sull’epica del combattimento (come faceva o cercava di fare X-Men: Apocalisse), insegue il coinvolgimento vertendo su questioni private tra i personaggi, su nodi emotivi, su una rete telepatica di vissuti e ragioni invisibili: la miniatura emotiva è la misura ricercata in maniera continua attraverso passaggi dialogati molto caricati emotivamente, quasi come lungo un percorso a tappe obbligate dedicato alla frontalità della comunicazione. Pochissimo di quanto condotto mediante confronto dialettico però si salva a causa di una trasparente incapacità di alcuni attori protagonisti (tutti, in fondo, a parte Fassbender) di cogliere anche la poca bontà del lavoro fatto in sede di sceneggiatura in questa direzione. Il maggior difetto è la gestione del personaggio di Jean da parte di Sophie Turner.
Costretta a coordinare le linee narrative intorno a sé e a mescolare i toni espressivi per rappresentare a un tempo la perdita dell’innocenza, l’acquisizione di un potere cosmico, la ribellione contro una forma di patriarcato paternalistico (questa linea ideologica non salva il film con l’aggancio contemporaneo, anzi, è gestita molto frettolosamente) e il desiderio di sicurezza famigliare, l’attrice non sa come muoversi sotto la pelle di un personaggio complesso e non sa comunicare tutta l’interiorità tumultuosa che il film le affida. Ne risulta la paradossale conseguenza secondo cui il grande problema non è la sorprendente ingenuità nello sviluppo della trama – la completa assenza di motivazioni e di carisma dell’antagonista, la risoluzione istantanea motivata dalla superpotenza della protagonista – ma la scelta di tentare la strada della rappresentazione psicologica e anti-climatica e la parallela insufficienza nel sostenere il peso di questa scelta contenutistica: apparentemente più lucida e riflessiva di una sequela di combattimenti e scazzottate e invece ancora meno comunicativa, a causa di un lavoro attoriale completamente separato dagli obiettivi necessari.