Fu Klaus Kinski, nel 1972, a vestire per Werner Herzog i panni di un folle conquistatore alla ricerca di El Dorado in Aguirre, Furore di Dio, che impresse al cinema una marca indelebile tra realismo ed espansione visionaria.
Christopher Kirlkey, statunitense, etnografo prima che regista, ne conserva la lezione spostando l’obiettivo sul Niger. Altre città dell’oro proliferano infatti nelle leggende popolari al di là della patria America; una di queste è Zerzura, oasi favoleggiata in quel del Sahara, fonte sicura quanto temibile di prosperità e ricchezze.
In una produzione collaborativa con una troupe e un cast Tuareg, Kirkley riserva per Ahmoudou Madassane il ruolo di viandante. Che sia di professione chitarrista non è un caso: anche curatore della colonna sonora si fa veicolo, nel corpo come nella musica, di un messaggio codificato secondo un ritmo affabulatorio, martellante, incantatore.
C’è tutto il “cinéma vérité” di Jean Rouch ad aprire questo Zerzura, l’antropologia visuale negli esterni desertici abitati da una tribù che si scambia battute sulla siccità, sulle greggi che fanno fatica a sopravvivere, sul futuro dei membri della famiglia; ma una voce fuori campo ci narra già di bambini che vengono rapiti mentre cercano di catturare uccelli, e nello stesso susseguirsi delle parole in lingua Tuareg, suoni ai più non intellegibili che vanno a costituire però un’ancestrale, nota melodia, soggiogante e quasi stordente, c’è l’avvisaglia di una dimensione altra, jodorowskiana.
Un uomo, che si rivelerà evanescente, consegna una misteriosa spada ad Ahmoudou mentre entrambi prendono acqua da un pozzo; ne avrà bisogno, gli dice. Inizia così l’incantesimo, o la psicosi, o tutt’e due le cose insieme, e prosegue via via più abbagliante nel corso del viaggio che il nostro decide di intraprendere dapprima alla ricerca del fratello, creduto dimentico delle proprie origini nella città di Agadez, poi verso Zerzura, dove si scopre essere stato, prima di lui, diretto.
Kirkley riduce allora lo spazio delle parole, poche ma tessute stavolta secondo una trama apertamente mistica, e lascia che sia la forza delle immagini, sempre accompagnate da una chitarra folk, a portare avanti la misura allucinata e allucinante del racconto.
“Acid western” quindi, un’opera transculturale in cui la formazione americana dell’autore si riduce ai cardini; attorno ad essi ruota, qui, la suggestione di un altrove insolito. Girato con pochi mezzi e prodotto grazie a un’attività di crowdfunding, rientra nel “nuovo” anche attraverso il paradosso dell’obsoleto. Gli effetti speciali (per lo più tagli in fase di montaggio, o dissolvenze) rimandano a un cinema degli albori, che pure era, e ancora è, in grado di condurre verso territori inesplorati, in un faccia a faccia, letteralmente, con i propri demoni. Il lieto fine è solo una delle possibilità.