(..continua # 4) Anna che, rifiutandosi di recitare la sua vita, semplicemente vive, l’elettricista che, entrando in campo, rifiuta la regia col suo atto d’amore.
Da allora la sceneggiatura è abbandonata e ci si limita a documentare la vita che un gruppo di persone, per un certo periodo, sta condividendo, Anna non è più la protagonista di un’ esperimento cine-antropologico ma colei che, portando la su dirompente disperazione su un set, ne ha rotto le gerarchie, dimostrato l’inutilità.
Tutto questo è reso possibile anche dall’uso del mezzo, a quei tempi pioneristico, del videotape: un Akai avuto in prestito da un imprenditore di import-export. La pellicola è costosa e non riusabile e per questo costringe a pensare il tempo filmato come soldi che se ne vanno: ne va limitato l’uso, non sprecato niente. Questo contribuisce a perpetuare l’ideologia dominante, che rappresenta tutto come sottomesso al potere del denaro e dell’acquisto. Usare un mezzo economico come il video liberava da questa schiavitù e permetteva di girare ore ed ore di seguito: “Girando con la pellicola, quando si improvvisa, è un po’ come andare a caccia: aspetti, per premere il bottone, che succeda qualcosa di ‘particolarmente significativo’. Ma quel qualcosa di particolarmente significativo è quello che propone da centinaia d’anni il teatro borghese e il cinema di cassetta: sulla scena tutti i significati, in platea la merda. Smettendo di amministrare scegliendole e orientandole, le persone che volevamo filmare, registrando sempre(…),buttata nel cesso la sceneggiatura, questo libro mastro del tempo del capitale, abbiamo trovato il ‘sempre’, il tempo continuo della vita reale, che è l’intersecarsi osmotico di tutti i tempi soggettivi.” ((Alberto Grifi, Undici ore di videoregistrazioni.))
Anna, finito di montare nel 1975, viene presentato al Forum di Berlino e al Festival di Venezia dello stesso anno. A metà anni ’70 non è ancora possibile proiettare su grande schermo il materiale video, esso deve essere trasferito su pellicola, tramite un macchinario di nome vifigrafo, non disponibile se non a costi proibitivi. Grifi si sottrae ancora una volta ai limiti imposti dal Capitale e se ne costruisce uno da solo, perfettamente funzionante, in grado di sincronizzare una macchina da presa e un Nagra con un videoregistratore, chiamato scherzosamente dagli amici ‘vidigrifo’.
Il video, con la sua economicità, permette di realizzare il sogno che Zavattini aveva vagheggiato con la creazione dei cinegiornali liberi di riprendere quello che succede in tutti i luoghi e scambiarselo come unica merce di valore insostituibile. (Nel 1972 con Massimo Sarchielli Grifi andrà dallo storico sceneggiatore a mostrargli questa nuova tecnologia rivoluzionaria, il risultato è La prima volta che Zavattini ha visto un videotape, in cui Zavattini gira il suo primo video, parlando con la telecamera in mano, che putroppo non registra niente, perché si trattava di un videoregistratore incompatibile con quel nastro. Rimane la registrazione sonora, a cui verrà aggiunto uno sketch comico con Francesco Ventura).
Grifi si muoverà da allora, con altri videoteppisti, per costruire una nuova narrazione, in cui la finzione in realtà non esiste più; la telecamera è puntata non sugli eventi che l’ ideologia dominante riterrebbe più significativi ( e quindi commerciabili), ma dalla parte opposta. Basta pensare a Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro, (1976) che chi ha commissionato pensava come la ripresa del Woodstock all’italiana con l’attenzione puntata sui cantanti, mentre le riprese diventano itinerario vissuto delle contraddizioni politiche e umane della manifestazione, e a Lia (1977), che invece di riprendere le voci ufficiali di un convegno sull’antipsichiatria raccoglie l ‘intervento illuminante di una ragazza che, dal pubblico, inizia a parlare di sé e della sua (di tutti) follia.
Il pianosequenza diventa la morfologia semplice di un cinema che aspetta che le cose succedano da sole, senza forzarle, tollerando, anzi, amando la loro apparente insignificanza: “In realtà il piano-sequenza è quello che non si vuole vedere nella realtà.” ((Dall’intervista con Monica Dall’Asta, registrata il 12 Settembre 2004))
La telecamera permette di avere quella libertà (dai costi, dalle limitazioni di un set e di una troupe numerosa) che riconquista il giusto spazio allo sguardo, non davanti alle cose, una regia che dall’alto segna la direzione da seguire, ma in mezzo ad esse, epicentro di un movimento centrifugo che provoca nella stessa misura in cui è provocato.
Gli anni ’70 si concludono per Grifi con una collaborazione con il sociologo Guido Blumir per la realizzazione di tre filmati brevi che la Rai finanzia prima di leggere la sceneggiatura, che dovevano trattare di problemi quali la criminalità giovanile, la tossicodipendenza e la follia. Grifi e Blumir, sfruttando i mezzi a disposizione, ne approfittano per contestare la richiesta alla base capovolgendo i termini delle questioni: realizzano Michele alla ricerca della felicità che denuncia i maltrattamenti e le violenze del sistema carcerario italiano, Non ci sono spini senza rosé, sul proibizionismo ipocrita dello Stato e Dinni e la normalina, una favola allegorica sull’intento normalizzatore che lo Stato esercita sulle creatività liberata.
Quello che si voleva mettere in luce, facendolo passare attraverso il mezzo detenuto da chi si contesta, è quel clima di ansia repressiva che si andava sempre più diffondendo in Italia, con una classe politica intenta alla repressione di ogni dissenso. Non stupisce che solo uno di questi tre lavori sia stato mandato in onda (Non ci sono spini senza rosè) e gli altri censurati Michele alla ricerca della felicità doveva essere trasmesso la sera del rapimento di Moro, e non fu mandato in onda con quella scusa, anche se come ha detto Grifi, Portobello andò in onda lo stesso.
Negli anni ’80 l’attività di Alberto Grifi, vittima della censura e della repressione ideologica, e ugualmente non disposto a nessun tipo di compromissione di comodo, si interrompe.
Estromesso a forza da un sistema che non riesce a contenerlo egli si convince ancora di più dell’impossibilità di trascendere la propria situazione concreta per creare film che falsificano la vita. (#4 continua..)