Il degrado della televisione generalista italiana è una vecchia questione, ma l’orrore della prima guerra effettivamente riquadrata, rilanciata e sezionata dagli schermi dei dispositivi di massa, come quella che vede la violenta e illegale aggressione russa contro la sovranità dell’Ucraina, ha definitivamente saldato i format basati sulla rissa spettacolare, con la crescente necrofilia di certo giornalismo bellico. Televisione e rete non dialogano più secondo un processo che consenta alla prima di filtrare il delirio non verificato della seconda, perché è proprio la produzione, spesso amatoriale, di quel delirio che alimenta il meccanismo economico in grado di garantire la sopravvivenza dei contenitori d’informazione sull’onda dello share.
“Cultura” novax, filoputinismo, cospirazionismo al più basso grado narrativo disponibile, negazionismo, sono diventati ingredienti irrinunciabili per i talk show di informazione prodotti in Italia. Il ricorso massivo a concetti come quello di post-verità oppure a forme di comunicazione emozionale elevate al livello di opinioni, ha aperto la porta all’utilizzo indiscriminato della menzogna come modalità di controllo e di distorsione sulla qualità complessiva dell’informazione. Dalla musica all’arte, dalla scienza alla geopolitica, la specializzazione è un ostacolo scomodo, perché innescherebbe quel pensiero critico necessario per disattivare le modalità pervasive della propaganda, dove la verifica informata non è contemplata.
In fondo, Bertrand Tavernier, con “La morte in diretta” aveva previsto tutto riguardo alla sovrapposizione tra media e morte, raccontandoci che è proprio il nostro sguardo ad esercitare la prima forma di connivenza con un voyeurismo sistemico, dai contorni patologici e autodistruttivi. Un potere che il personaggio interpretato da Harvey Keitel ad un certo punto spegne, accecandosi e distruggendo i dispositivi di ripresa innestati nel bulbo oculare, per non documentare più l’oblio di Romy Schneider, nel film di Tavernier malata terminale di cancro, sulla quale viene ritagliato un reality che mostri sin nei dettagli più scabrosi, il suo degrado fisico e morale.
I livelli di squallore raggiunti da alcuni format diffusi dalle principali reti free-to-air e in alcuni casi da quelle di stato, collocano l’Italia in una posizione di retroguardia rispetto a paesi come Francia e Inghilterra, dove la qualità dell’approfondimento è un’attitudine istituzionale. Da noi è evidentemente impossibile superare la sindrome dell’avanspettacolo e tutto riconduce ad una parodia squalificante di quel modello.
Occorre allora fare come Harvey Keitel e metaforicamente accecarsi, spegnere questo spettacolo morboso e pericoloso, assestare un colpo netto allo share, pretendere qualità divulgativa, scientifica, filosofica e storica. Non basta più il “blob” pseudo-situazionista o peggio ancora, la proliferazione di analisi semiotiche che dal tavolo autoptico, affrontano realtà popolari, nel club esclusivo delle cittadelle universitarie. Al contrario sarebbe auspicabile avvicinare i due mondi con un metodo rigoroso, accessibile e visionario allo stesso tempo: tendere una mano allo spettatore, contribuire alla sua formazione, toglierlo dalla fossa dei leoni e proteggerlo dal cinismo di una classe di imbonitori prestati al giornalismo.
[Foto di Maghradze PH da Pexels]