venerdì, Novembre 22, 2024

127 ore di Danny Boyle

Il nuovo film di Danny Boyle è una rilettura estrema e postfilmica del suo cinema; presentato in anteprima italiana al festival di Torino, 127 hours è in questi giorni programmato nelle sale Italiane

L’immagine drogata di Danny Boyle non è troppo distante dalla produzione (illusoriamente) connettiva dei fratelli Scott messa in mano a Kevin Mcdonald; non lo è quando The Millionaire fonde linguaggi apparentemente incongrui con una disinvoltura che sta a metà tra il cinema cannibale degli anni ’80, quello di Alan Parker, Adrian Lyne, gli stessi fratelli Scott, e la simulazione dello spazio virtuale generato dai dispositivi digitali, un contrasto che Boyle, da vero e proprio re-cutter, manda avanti e indietro con piglio schizofrenico come se fosse drammaticamente incerto tra l’aderenza ai resti di un processo narratologico esibito e una maggiore libertà narratografica, ovvero, colto di sorpresa  in quel passaggio da analogico a digitale, dove dagli elementi strutturali del plot si concentra maggiore attenzione ai frammenti materiali che costruiscono lo storytelling visuale. E’ un aspetto cognitivo che coinvolge l’alterazione della memoria in quasi tutto il cinema di Boyle tanto da collocare 127 Hours in una posizione di rilettura estrema e postfilmica di tutto il suo cinema. Interamente girate in digitale, le 127 ore di Aron Ralston, interpretato da un potente James Franco, sono un’odissea che cerca di catturare quel confine indistinto tra durata e cambiamento; nell’orizzonte atemporale del deserto, Aron sfida la morfologia dei Canyon dello Utah surfandoli, interpretandone la struttura, infilandosi nel loro scheletro millenario; armato di una fotocamera digitale e di una miniDV cattura velocemente tutte le nuove forme che incontra, fino a quando, durante una caduta accidentale, non rimarrà incastrato da un masso che segue la sua discesa e che salderà il suo braccio destro sulla parete del Canyon. Ispirato ai tragici eventi che bloccarono per cinque giorni Aron Lee Ralston durante la sua escursione nei territori del Canyonlands National Park, il film di Boyle spinge quasi ottanta minuti dei 94 complessivi in una lotta tra corpo, memoria e modellabilità del ricordo digitale; non è semplicemente il contrasto tra la visione mentale e la necessità di documentare su nastro la propria sopravvivenza al tempo, ma è anche l’occhio stesso di Boyle che ne riproduce la stessa frizione, sospeso a metà tra la distanza dello split digitale e la prossimità fisica di una body-camera, vicinissima al corpo di Franco da rappresentarne quel passaggio allo stato fantasma che Ralston stesso raccontava alla stampa nel descrivere il contenuto dei suoi nastri, la disintegrazione di un corpo nella durata del girato. Ed è proprio sulla reversibilità del tempo digitale che Boyle insiste, costruendo un film ancora più ibrido e mostruoso del solito, svincolando la dipendenza pubblicitaria del suo cinema, o se si preferisce, l’insopportabile (e pubblicitaria) retorica neorealista di The Millionaire,  in un brulicare ipertrofico di advertising immaginifico dalla consistenza archeologica pre-youtube, che si confonde con il tessuto della memoria digitale e la fuga salvifica in un mondo psichico. Quando Aron/Franco esce alla luce del sole, Boyle si serve di tutti i limiti e i vantaggi della visione elettronica bruciando l’immagine, accecando il frame con gli stop completamente sballati, cosi da rivelare i confini, tra vita e morte, di un tempo virtuale.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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