“Chi è stato veramente Mishima?- si è chiesto il regista – Cosa ha rappresentato il suo gesto? Quali erano i moventi di ogni sua azione? Cosa ha lasciato in chi è stato testimone di quel giorno? L’anno chiave per tutta la vicenda è il 1960, quando nello scenario internazionale cresce il disdegno per trattato di sicurezza del 1951, stipulato tra Giappone e Stati Uniti. Gli studenti del Sol Levante danno vita ai primi movimenti studenteschi di contestazione, reclamando diritti sociali appoggiati anche da agricoltori e braccianti. Anche gli studenti più conservatori si mobilitano per contrastare i loro coetanei di sinistra. Da queste fila, vengono fuori gli uomini del Tate no Kai di Mishima. Ma chi erano realmente? Chi erano i loro nemici reali? E, soprattutto, che influenza hanno avuto o subìto dallo straordinario gesto di Mishima?Il mio Mishima risponde a tutto ciò “.
In un crescendo epico di grande tensione e rigore documentario, Wakamatsu sceglie l’essenzialità della ricostruzione storica affidata a filmati di repertorio, mentre intorno al suo eroe diegetico restringe progressivamente i margini dello spazio scenico. I moti di piazza degli anni sessanta finiscono nelle polemiche asfittiche dei collettivi studenteschi, incapaci di cogliere il messaggio di Mishima, il culto della tradizione diventa chiusura irreversibile in un passato ricostruito con scenografie di precisione calligrafica: le aule della scuola di samurai e i duelli con bastone e katana, lo spazio asfissiante della sauna, dove Mishima e i quattro fedelissimi prendono le decisioni definitive, infine il terrazzo del Ministero, dove le parole naufragano nel chiasso di fondo della folla, invisibile, assiepata sotto, e la sua figura non ha l’araldica baldanza dei grandi oratori da balcone. Mishima è un uomo solo, con i suoi sogni e quattro ragazzi che vorrebbero morire con lui, e uno di loro riuscirà a farlo. Wakamatsu mette in scena l’atto sacrificale al culmine del film, poi il rosso dell’acero e l’azzurro del mare, il bianco del sacro Fuji e i pastelli della primavera sfumeranno il sangue nella materia concreta ed evanescente dei sogni, un pub fumante di vapori di cucina, una domanda, “Cosa lasciavi alle tue spalle quando Mishima moriva?”, e due mani vuote, tese in primo piano, chiuderanno una storia cruenta e disperata con la leggerezza di un haiku di Matsuo Basho:
Ammalandosi, in viaggio,
i sogni vagano, sospesi,
in una landa desolata.
Era il 25 novembre 1970 quando Mishima entrò nel Ministero della Difesa a Tokyo. Lo seguivano quattro membri del suo esercito privato, il Tate no kai (Associazione degli scudi), organizzazione paramilitare di cento giovani votati ad una simbolica funzione di difesa della tradizione e ostili al Trattato di San Francisco che, nel ’51, aveva consegnato agli Stati Uniti la difesa della nazione, sconfitta e totalmente americanizzata. Mishima mise in atto il piano preparato da anni e rigorosamente calcolato in tutte le sue fasi.
Dopo aver parlato dal terrazzo alla folla di soldati, fotografi e giornalisti accorsi, del sentimento nazionale giapponese, della necessità di ripristinare i poteri dell’imperatore e del degrado portato al Giappone dal processo di americanizzazione, tornato all’interno praticò il taglio del ventre (hara-kiri) seguito da decapitazione ad opera di Morita, il soldato più fedele, a cui tremò la mano, rendendo necessario l’intervento di un altro seguace. Intellettuale scomodo e intransigente, giunto all’apice del successo, Mishima Yukio decise una morte solo in apparenza spettacolare, il seppuku, suicidio praticato dagli antichi samurai in ossequio all’etica del bushido (la via del guerriero), codice di condotta fatto di norme di disciplina militare e morale ferrea, quali onestà, lealtà, giustizia, pietà, dovere e onore.
Una infrazione, anche minima, a tale codice risultava insopportabile per un samurai, dunque il seppuku veniva praticato con piena autodeterminazione. Cerimonia fra le più antiche del Giappone, rituale di alto senso etico, da celebrare con osservanza estrema della sua integrità liturgica, risultò così sconvolgente agli occhi occidentali da monopolizzare un’attenzione inorridita che espose la figura di Mishima a fraintendimenti e interpretazioni lontane da una comprensione autentica di quella cultura. La decapitazione con katana le appartiene come salvaguardia della sua purezza, e interviene ad evitare che la maschera facciale, stravolta dal dolore, perda l’austera dignità che il momento richiede. Ne La spada, racconto del 1963 ambientato nel mondo del kendo, la più giapponese delle arti marziali, c’è il testamento spirituale di Mishima, sintesi fra l’assoluta dedizione alla causa che lo porterà al sacrificio finale e il principio buddhista del mujo, l’impermanenza:
“Tutti i mondi sono simili ad una fiamma oscillante: sono simili a un’ombra, a un’eco, a un sogno, a una creazione magica” (dal Vimalakirti Nirdesa)
Su questo principio si realizza la convergenza fra due sguardi solo in apparenza antitetici, in realtà molto simili. Da un lato c’è un uomo controverso, impossibile da catalogare nei canoni restrittivi di una morale che non gli appartiene, sempre pronto a confondere e fuorviare ogni giudizio, teso ad affermare fino alla morte la propria libertà, dall’altro un regista leggendariamente provocatore, che dice: “Siamo condannati a morte. Proprio per questo, fate ciò che volete, dite ciò che pensate”
Su Mishima, all’indomani del gesto che sconvolse il Giappone e il mondo intero, Wakamatsu aveva già fermato l’attenzione nel ’71, con La donna che voleva morire (Segura Magura: Shinitai Onna), storia di due sposi in viaggio di nozze che contraggono un vicendevole patto di suicidio.
Mishima vi compare in brevi filmati e ci sono riferimenti allo Zengakuren, Federazione dell’Autogoverno Studentesco del Giappone nato nel ‘48. La morte, e quello che Mishima aveva rappresentato in vita per la cultura giapponese negli anni cruciali del secondo dopoguerra, non potevano non attirare il suo sguardo. La radicalità di Wakamatsu, dopo aver raccontato le storie individuali, si appropria ora della grande Storia, ferita sempre aperta nella memoria del Giappone post bellico. E’ nella storia di un popolo la genesi delle storie dei singoli, e guardare là dove tutto si genera con la lente dell’entomologo e la pietà dell’uomo era stato il punto di partenza anche per l’altro enfant terrible del cinema giapponese, Oshima Nagisa.
Per Wakamatsu è il punto di arrivo.
Un filo ideale lega i due registi, creatori di storie di vita e morte tenute insieme da un intreccio sempre provocatorio ed eretico, continuum mobile in cui sesso e violenza generano codici artistici iconoclasti ed estremi. Oshima, il cane sciolto, l’universitario anarchico e individualista che nel ’51 aveva gridato all’imperatore in visita a Kyoto: “Non proclamare più il tuo carattere divino! Sono morti già troppi giapponesi per colpa di questa divinità”, metteva in bella mostra un gran cartello per strada in un suo film:
“Diamo amore e futuro ai ragazzi”
I suoi Il cimitero del sole e Racconto crudele della giovinezza, entrambi del ’60, avevano aperto la strada al Nuovo Cinema e chiuso con i seishun eiga, equivalente giapponese degli Heimatfilme tedeschi. Lungo questa strada si è messo Wakamatsu. Uniti da rapporti amicizia e di collaborazione (è produzione di Wakamatsu Ecco l’impero dei sensi di Oshima) molti stupirono:
“Le perplessità della stampa specializzata erano dovute soprattutto alla presunta incompatibilità artistica tra Wakamastu e Oshima- racconta il regista in un’intervista del 2007 ad Asia Express – I suoi film erano considerati raffinati, eleganti, troppo cerebrali mentre quelli di Wakamatsu erano sempre morbosi e violenti. La critica non aveva tutti i torti. Tutti erano curiosi nei confronti di questa “creatura ibrida”. Eppure avevamo qualcosa in comune. I film di entrambi condividevano un approccio riflessivo sul tema della violenza fisica e psicologica. Anche se forse devo ammettere che tale aspetto è espresso in modo più radicale nelle mie pellicole”
E’ questo “approccio riflessivo sul tema della violenza fisica e psicologica” a dare al cinema di Wakamatsu quella straordinaria capacità di coniugare sesso e politica rivoluzionaria: “Quando decido di affrontare un tema politico per il grande schermo lo faccio con la stessa tensione emotiva che cerco di mettere nelle scene di amplesso”.
Nel destino di Mishima gioventù, bellezza e morte si legano indissolubilmente. Dalla decisione suicida si sprigiona una tensione erotica esasperata che non può che culminare nel gesto definitivo, lo squarcio lento, autoinflitto, al centro del corpo, nel nucleo originario della vita. La sensibilità estrema di Wakamatsu, perennemente sopra le righe come il suo personaggio, ne raccoglie il messaggio profondo, etico ed estetico insieme. In anni relativamente lontani, i Sessanta, quelli delle rivolte e delle illusioni che poi sfumarono, Oshima aveva parlato dei suoi giovani così: “E’ una storia di giovani che non possono manifestare la loro collera se non in modo deviato. Mostrando la tragedia di questi giovani ho espresso la mia stessa collera davanti alla situazione in cui si trova la gioventù contemporanea”.
Nei quaranta anni successivi toccherà a Wakamatsu mettere in scena lo scacco di una generazione di fronte al tradimento della Storia. Che siano i moti collettivi di piazza, degenerazione e fallimento dell’ondata rivoluzionaria di United Red Army del 2007, o la caduta solitaria di Mishima, è nel giudizio di Oshima su Wakamatsu che troviamo le parole più adeguate per esprimere la profondità tragica del suo cinema: “I film di Wakamatsu offrono ai loro spettatori un’esperienza che non ha equivalenti alla luce del sole. La voce del desiderio che echeggia nella notte”.