Debutto alla regia per Dante Ariola, premiato regista di videoclip e spot pubblicitari, inclusa una lunga esperienza come graphic designer che lo ha visto progettare gli artwork per numerosi album musicali. Insieme a Becky Johnston (Il principe delle maree) alla sceneggiatura, Colin Firth ed Emily Blunt in ottima sintonia reciproca, mette in scena una delle storie più antiche del mondo in chiave pop: quella dell’uomo che volle cambiare sè stesso.
Protagonista della dark comedy a sfondo sentimentale è un anonimo americano della Florida, Wallace Avery (Colin Firth) deciso a cambiar vita passando dalla morte (finta, naturalmente), assumendo la nuova identità di Arthur Newman, giocatore professionista di golf, lui sì, definitivamente defunto; al primo motel sulla sua strada Wallace capisce che non è così facile, l’aveva capito, alla fine, anche Mattia Pascal, e perciò, non senza rammarico, tornò al paesello per diventare il fu. Wallace impiegherà più energie, siamo nelle sconfinate pianure dell’America coast to coast, mica nei crepuscolari quartieri della Roma umbertina!
Dunque l’incontro fatale non può che avvenire in uno di quegli squallidi motel che, da Psycho a L’infernale Quinlan, passando per Non è un paese per vecchi e avanti avanti fino a Rapina a mano armata, Ascensore per il patibolo, Paris/Texas eccetera eccetera, vedono accadere le cose più impensabili (o quelle più prevedibili) nei film americani.
Dopotutto, la presenza di un motel è un topos ricorrente per rendere tangibile l’irrealtà della vita quotidiana nella Grande Mela. Già Christopher Isherwood notava che “I motel americani sono irreali! (…) sono progettati apposta per esserlo (…) Gli europei ci odiano perché ci siamo ritirati a vivere dentro la pubblicità, come eremiti che se ne vanno nelle grotte a meditare”.
Stavolta l’incontro fatale è con Mike (Emily Blunt), impasticcata da non potene più, ballonzolante in stato confusionale su bordo piscina. Veloce corsa in ospedale (Wallace non ha abbandonato la sua umanità insieme al suo nome) e assistenza al capezzale per tutta la notte. Il tentativo di convincerla a tornare a casa in autobus, il mattino dopo, è naturalmente destinato a fallire. Mike, che ha velocemente recuperato tutte le sue facoltà ed è più lucida che mai, scopre il segreto di Wallace in una tessera dimenticata nella sacca da golf, e decide che non le dispiacerebbe provarci anche lei a diventare un’altra, dopotutto la sua vita è perfino peggio di quella di lui.
Detto e fatto, la coppia on the road dà vita ad un esperimento che starebbe bene negli schedari delle polizie locali, classificato come “occupazione abusiva d’immobile”, se Ariola non ne facesse un’avventura del tutto surreale: Wallace e Mike adottano l’identità dei residenti, momentaneamente assenti per ferie, matrimonio o quant’altro, di casette a schiera o appartamenti in condominio. La trovata sarebbe discreta, originale forse no, ma divertente, se il film si decidesse a decollare. E invece va avanti scendendo un gradino dopo l’altro nella prevedibilità e nella noia. Il punto di non ritorno è segnato dalla massima che Wallace/Arthur si decide ad esternare a Mike, diventata ormai, dopo abbondante tirocinio sessuale, sua confidente e compagna: “La famiglia ti spezza”.
Poiché il problema era in fondo quello, e il piccolo Kevin (da qualche tempo sembra diventato il nome dei bambini cattivi al cinema!) non scartava nemmeno i regali che lui gli portava, mentre moglie e amante lo trovavano noioso, ora che l’esperimento simil hippy è fatto (ma lui sempre in camicia e pantaloni con piega, però!), si può tornare a casa sperando di recuperare qualcosa. I sensi di colpa premono sempre sulla coscienza dell’americano medio, ma, naturalmente, non mancherà la fatidica frase alla bella Mike (in procinto di recuperare anche lei l’affetto della gemella abbandonata che, forse, è Eva Green, tanto le somiglia): “So dove trovarti”.
E’ una promessa a lei e allo spettatore, o è una minaccia? Il finale è aperto.