L’irlandese Ciarán Foy, dopo essersi diplomato alla principale scuola di cinema Nazionale a Dublino, realizza una serie di corti tra cui un paio che riescono a circolare attraverso un’ampia rete di festival; Scumbot e il successivo The Faeries of Blackheath Woods sono due brevi esercizi di “genere” apparentemente diversi tra loro, il primo, quasi un videoclip iperrealista su un gruppo di Hooligans radiocomandati, viene realizzato in DV durante un pomeriggio con uno stile documentale legato ad un uso selvaggio del digitale e un incedere “street-house” volutamente amatoriale; il secondo sfrutta al contrario un’impostazione CGI più pulita per uscire dal contesto urbano ed entrare in quello della fiaba, ma con il solito gusto per la deformazione e l’eccesso.
Citadel, il primo lungometraggio di Foy, mette insieme queste intuizioni sullo sfondo di una Glasgow post-apocalittica e Ballardiana, desumendo dallo scrittore britannico quello sguardo disfunzionale sulla morfologia della città verticale osservata dopo il declino. Tommy (Aneurin Barnard) e Joanne (Amy Shiels), la sua fidanzata incinta, vengono assaliti da un gruppo di ragazzini incappucciati direttamente fuori dal loro appartamento, situato in un edificio fatiscente, parte di un complesso noto come Citadel.
Mentre Tommy è costretto in ascensore, vede attraverso il vetro la scena del massacro; quando riuscirà a liberarsi da quell’angusto abitacolo, troverà Joanne ferita a morte e con una siringa ipodermica piantata in pancia. La donna entrerà in coma profondo dopo aver partorito una bimba e il ragazzo dovrà prendersi cura della piccola uscendo ogni giorno in un territorio ostile e abbandonato, filmato come una discarica infinita senza più nessuna funzione sociale; gli unici luoghi di interazione subiscono una fortissima deformazione di memoria quasi Polanskiana, dove la realtà sembra sfaldarsi in una continua riconfigurazione dello sguardo soggettivo.
Ciarán Foy fa sprofondare Tommy in un terrore ancestrale, dove nessun luogo è sicuro e la minaccia di un attacco esterno viene progressivamente accentuata dal ritorno di queste creature incappucciate, la cui origine sembra appartenere ad una trasmutazione dell’inconscio in carne, come nell’immaginario del primo Cronenberg.
Citadel, a questo livello, condivide quella marcescenza della città, quasi Baconiana, di un film come Harry Brown , ma a differenza del film di Daniel Barber, che cerca nei volti degli occupanti i segni profondi della morte, fa scivolare lentamente il confine tra realtà e inconscio in una “quest” di tipo fiabesco tanto da sembrare una versione più laida di un altro titolo anglofono sul cuore nero della Suburbia come Heartless di Philip Ridley, autore molto attento al transito tra più piani di realtà; se Ridley quindi elabora una complessa metafora della visione su un piano che è anche materico e coloristico, Foy sembra prendere in prestito alcune intuizioni narrative dall’ultimo film del regista Londinese (la relazione tra visione e cecità che cambia sostanza alle creature che abitano la paura di Tommy) virando verso un tagliente incubo monocromatico che ha il suo punto di forza nella morfologia negativa dello spazio urbano; vero e proprio mostro di ferro e terra che imprigiona una realtà sociale al collasso.
Se l’uscita dall’incubo viene disinnescata, in tutta la sua potenzialità visionaria, da un simbolismo sin troppo urlato (la solita metafora cecità/visione come possibilità di convivere con le proprie paure), l’immagine dell’edificio che viene distrutto persiste, a dispetto di alcune scelte più facili, in uno spazio di confine tra familiarità e orrore, che è quello su cui si ergono le atrocità metafisiche della città.