“Prendi un’idea e trattala male”. Un campo rom alla periferia di Cagliari. Una donna misteriosa che torna da Parigi per stare accanto alla famiglia. Un commissario di polizia gentile e un forse innamorato. Oscillando fra fiction e documentario, con Dimmi che destino avrò il regista sardo Peter Marcias (giunto al quinto film) apre uno spiraglio sul tema della difficile integrazione delle comunità rom in una terra troppo spesso dimenticata. Una Sardegna brulla e ancora rurale, insolitamente invernale, sospesa fra accoglienza e timore. Il fratello di Alina rapisce la giovane di cui è innamorato. Come prescrive la tradizione, alla fuga seguirà il matrimonio, una festa campestre celebrata in compagnia. Ma la denuncia per rapimento innesca un’indagine che porterà Alina e il commissario ad avvicinarsi in modo inaspettato. Nel frattempo le limitazioni alla libertà personale incombono sull’esistenza degli abitanti del campo, costringendo tutti a prendere posizione. Se le buone intenzioni costellano il progetto di Marcias, che coraggiosamente entra nei campi rom (un mese e mezzo trascorso fra Monserrato e Selargius), coinvolgendo attori non professionisti sulla base di una sceneggiatura scritta da Gianni Loy, il risultato lascia interdetti. Gli spunti di riflessione, intendiamoci, non mancano: l’interazione che non riesce mai trasformarsi in integrazione; la ricerca di un’identità nella trasformazione (il figlio del poliziotto che lavora in un locale frequentato da transessuali, la figura di Alina, figura indipendente e coraggiosa, ma indissolubilmente legata a una tradizione rivendicata con fermezza) nello scenario apparentemente immoto dell’isola; la dialettica fra chi rifiuta l’accoglienza e chi si oppone a ogni intervento discriminatorio. Eppure gli ingredienti non si amalgamo, complice una certa tendenza al didascalismo e l’incapacità di trasporre le idee in pregnante immagine filmica. Le buone intenzioni rimangono accenni mentre il punto di vista degli autori, sempre esibito nei dialoghi, pare assente da immagini che si susseguono senza centro e senza spessore. Televisivo e raffazzonato, il progetto di Marcias rimane un’occasione sprecata.