Il film è spiazzante fin dalla trama. Cinque ragazzi vagano per un bosco senza una meta precisa, pedinati dalla macchina da presa (una fluttuante steady-cam), sempre pronta a perderli (e a perdersi nella vegetazione), per poi ritrovarli ossessivamente. Il luogo dove i ragazzi si muovono non è precisato, né, tantomeno, sono rese note le motivazioni sul perché i giovani si trovino in quel bosco. L’unico indizio è dato da una registrazione su di un walkman ascoltato da uno dei cinque, in cui udiamo un incidente automobilistico in cui, probabilmente, sono stati coinvolti i ragazzi. Questo prezioso elemento ci permette di assegnare una collocazione metafisica al bosco, elevandolo ad una sorta di Eden, di Purgatorio, dove i giovani sono costretti a vagare senza una meta precisa, con l’impressione di ritornare perennemente sui propri passi. Durante il loro viaggio (come i protagonisti di Gerry, i protagonisti camminano perennemente), i cinque discorrono continuamente, ma i dialoghi sono spesso privi di senso, caratterizzati da continui giochi di parole – come il formare frasi dal senso compiuto, composte da sei lettere – e poesie non-sense. I gesti stessi dei ragazzi sono deprivati di senso, semanticamente svuotati, un po’ come accade nel cinema contemporaneo di Yorgos Lanthimos. Per fare un esempio, in una sequenza dai tratti particolarmente onirici, i cinque giocano a pallavolo con una palla immaginaria: i loro gesti sembrano semplicemente mimare la realtà, sfiorarla di striscio. I cinque ragazzi sono soltanto più dei fantasmi (i los muertos), costretti a ripetere, e ripetersi all’infinito. Un branco di leones, che la macchina da presa abbandona continuamente per immergersi nella natura e creare dei vuoti narrativi in cui l’azione si annulla, per lasciar spazio alla semplice contemplazione audiovisiva. Jazmín López, già affermata artista visiva in diverse mostre internazionali, incrocia, in questo modo, la videoarte (Bill Viola su tutti) con la materia narrativa, sperimentando soluzioni linguistiche “eccessive” ed inusuali, ma mantenendo con precisione il suo gesto tarkovskijano: essa «scolpisce il tempo». Il film, potremmo affermare, nasce ideologicamente proprio dagli ultimi fotogrammi de Lo specchio, capolavoro del maestro russo, del 1974.
Eppure, questo eterno errare dei personaggi ha, alla fine, una soluzione. Se ai morti non viene più concesso di accedere al mondo – si pensi alla sequenza della casa inaccessibile -, un gesto di disperazione – il pianto per l’incidente – li porterà via dal bosco, per condurli su di una spiaggia. Un ultimo, lunghissimo piano-sequenza chiude il film: una delle giovani protagoniste si dirige verso il mare, per poi abbandonare l’inquadratura, e confondersi tra le onde. Forse ha finalmente trovato la pace. Lo schermo si fa bianco, e sotto le note di Do You Believe in Rapture dei Sonic Youth si chiude il film, lasciandoci pieni di interrogativi, ma anche di meraviglia, per questo esempio di cinema puro, accecante e incontaminato.