Il film, diretto da Sophie Blondy, si impone innanzitutto per la creatività visiva. La fotografia si distingue per l’eterogeneità delle scelte stilistiche: si passa, senza soluzione di continuità, dai colori vividi e contrastati, ai seppia, fino ai bianco e neri rarefatti e minimali, di derivazione felliniana. Si fa un largo uso della sovraimpressione e di semplici “trucchi” cinematografici demodé, che si collegano idealmente alla spettacolarità esibita del “cinema delle origini”: numerosi, infatti, sono i riferimenti de L’etoile du jour a Georges Melies e al suo cinema delle attrazioni. Così come l’ambientazione circense intensifica questo clima magico e sognante, ricordandoci – se ancora ce ne fosse bisogno – del fondamentale legame che intercorre tra il mondo questo spettacolo itinerante, il più antico della storia, e l’arte del cinematografo.
L’etoile du jour si muove dichiaratamente sui binari dell’inverosimiglianza e dell’eccesso. È un film in tutto e per tutto barocco, in cui dominano le immagini forti, a metà strada tra il sublime e il patetico, tra il poetico e il kitsch. Le interpretazioni sono spesso sopra le righe: in particolare, quella di Denis Lavant, icona di un cinema oltraggioso (e coraggioso) come quello di Carax. La gestualità sincopata dell’attore francese, perfettamente a suo agio nella parte del giocoliere, traduce alla perfezione il carattere di questo personaggio, al contempo, tragico e buffo. Così come adeguati sono i brani attentamente scelti per la colonna sonora: fra tutti, Tom Waits – che richiama alla mente, con le sue splendide copertine, l’iconografia e l’atmosfera del film – e i Tindersticks, band post-rock fedele al cinema d’autore francese, noti per la loro collaborazione con Claire Denis. In sostanza, il film di Blondy peccherà forse di eccessivo manierismo, ma – e bisogna sottolinearlo – di un manierismo necessario, che trova proprio la sua giustificazione nella natura barocca del film stesso.