Dopo The Unforgiven e Beastie Boys, il regista sud coreano Jong-Bin Yun torna a esplorare l’universo maschile e i suoi codici in Nameless Gangster (exploit al botteghino patrio e presentato al TFF nella sezione Festa Mobile) che, in 133’ minuti, narra l’ascesa e la caduta dei boss ai vertici della criminalità organizzata di Busan, metropoli portuale travolta da faide e soldi sporchi fra l’inizio degli anni ’80 e i primi ’90, quando il governò locale cercò di smantellarne la struttura. Dove c’erano soldati (The Unforgiven) e raffinati gigolò (Beastie Boys), qui ci sono bravi ragazzi di scorsesiana memoria, famiglia allargata, a proprio agio fra fiumi di cocaina e casinò. La corruzione è il male morale che avviluppa con i suoi tentacoli una città al collasso, dove avidità e brama di potere annullano le differenze fra le parti in lotta, mentre le mazzette scorrono a fiumi in una rappresentazione a tratti feticistica (gli orologi d’oro ossessivamente inquadrati) della violenza urbana. Lo smacco, la crisi della piramide criminale sono il prodotto necessario della corsa a quel primato (potere e rispetto) inseguito da tutti i capibanda che il cinema ricordi. “The World is yours”, era il motto di Tony Montana, ma il mondo si piega e si deforma fra le mani di criminali cui basta un nome e una busta per rimuovere ostacoli, aggirare i cavilli della burocrazia, far saltare leggi e convenzioni. Una città notturna, un regno delle ombre dove i legami e le tradizioni famigliari non solo non oppongono forza al dilagare della violenza, ma la fondano, offrendole una legittimazione. Le donne (casalinghe, prostitute o crudeli maitresse) restano ai margini, mentre gli uomini si dividono il terreno di caccia in un film che cita i maestri americani, senza ritrovarne il ritmo e concedendosi qualche ripetizione di troppo. Fra flash back, note storiche (immagini di repertorio in bianco e nero in apertura) e una colonna sonora volutamente ironica, Jong-Bin Yun tratteggia la parabola criminale di Choi Ik-hyun, modesto controllore doganale impiegato al porto di Busan, viziato dal denaro con cui i contrabbandieri comprano il suo silenzio. Di fronte a una partita di droga di dubbia provenienza Choi non esita a mettersi nelle mani di Choi Hyung-bae, gangster legato alla yakuza, nonché suo parente alla lontana, che accetterà di mettersi in affari con lui. Lo smacco, il desiderio di rivalsa rispetto a un’immagine di se stessi che non si avverte come adeguata è il motore di una vicenda di lotte fratricide e tradimenti. Choi Ik-hyun, impiegatuccio in bolletta prossimo al licenziamento (per corruzione s’intende), si vanta di appartenere a una nobile famiglia e rivendica quello status che da sempre gli è negato. Il procuratore Jo Beom-seok, tutto occhiali e distintivo, si butta a capofitto nell’indagine che gli assicurerà la promozione. In fondo Choi Ik-hyun rimane un criminale da strapazzo, che gioca a fare il gangster, ma dimentica di caricare la pistola. Flaccido corpo estraneo, che si troverà costretto a scegliere fra salvare la pelle e conservare la stima degli “amici”. Alla fine il temuto repulisti governativo farà le sue vittime ma forse, per l’ennesima volta, bisogna che tutto cambi perché nulla cambi.