Il tema affrontato, lo stile minimale e la natura “indipendente” di Pavilion non possono non far pensare al cinema di Gus Van Sant. Il film, infatti, dichiara più di un debito nei confronti del regista di Elephant e Paranoid Park. Anche quelli di Sutton sono dei giovani silenziosi e introversi come i protagonisti dei due capolavori del regista di Louisville. Max raramente proferisce parola, nemmeno fra i suoi coetanei. Il silenzio che pervade il film – sia a livello di dialoghi che di commento sonoro – ci impedisce di penetrare realmente nelle psicologie dei personaggi. Pavilion è un film “di superficie” appunto perché non concede allo spettatore di andare oltre le immagini, di provare empatia verso i personaggi. Per l’intero film non conosciamo mai veramente Max e i suoi amici, ciò che pensano, ciò che sognano, ciò che desiderano: un silenzio inquietante, che forse nasconde qualcosa. Non a caso, a smuovere la “calma piatta” che pervade il film – e che lo rende comunque faticoso, se non a tratti sfibrante – è un’azione violenta: un ragazzo che, per divertire gli amici, si ferisce il volto con una pinzatrice. Immagini forti che si scontrano con la monotonia generale, che danno un sussulto di brutalità alla ripetitività della vita dei ragazzi.
La fotografia assolata del film traduce bene il clima di apatia e di noia che si respira per le strade del paese. Il regista utilizza attori non professionisti il cui compito, probabilmente, è quello di recitare semplicemente la vita di tutti i giorni. Le loro sono attività principalmente fisiche: vanno in skate o in bici, giocano a pallacanestro, fanno escursioni nel lago e per i boschi. Una frenesia continua che forse nasconde un vuoto da colmare. Ma il film, appositamente, non ci dice nient’altro di più: ciò che si nasconde dietro la superficie noi non possiamo vederlo, ma solo intuirlo.