La storia travagliata del film (snaturato da tagli in America dove uscì con il titolo di Stranger on the Prowl e la firma di Andrea Forzano, figlio del produttore della Pisorno, riproposto al pubblico solo nel 1998, a Venezia, per la 55a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, dopo il restauro a cura del Comune di Pisa) (( Per notizie sulla storia del film cfr. Elena Gremigni, “Imbarco a mezzanotte”, alcune considerazioni in margine a una cronaca delle riprese del film, da In Arte, 2002, pp.52-63 )) tensioni di varia natura circolanti sul set, la paura di compromissioni in seguito alla messa in stato d’accusa del regista, e, infine, Losey riaccompagnato alla frontiera da funzionari dell’Ufficio Immigrazione al ritorno da un breve viaggio in Francia, non segnarono tappe edificanti per una nazione democratica, e l’Inghilterra divenne da allora la sua patria di elezione, fino alla morte.
Esordio nel cinema : Il ragazzo dai capelli verdi
Quando arrivò il colpo di mannaia dell’HUAC, cinque erano già i lungometraggi girati da Losey in America, e, fra questi, c’era stato lo straordinario debutto a Hollywood, su invito del produttore Dore Shary della RKO, con Il ragazzo dai capelli verdi (The Boy with Green Hair) del 1948.
Primo film di un quasi quarantenne regista di teatro, con all’attivo anche numerosi documentari didattici per l’Amministrazione Nazionale dei Giovani negli anni quaranta, Il ragazzo dai capelli verdi è un film unico, un inconsueto incontro di generi, dal fantasy al musical, alla commedia di costume, ma, soprattutto, è un’opera singolare nel suo porsi in uno spazio libero da cui cominciare a comporre le forme di quel “cinema del disagio” che sarà il segno di Losey negli anni a venire. I meccanismi della sopraffazione e della discriminazione ci sono tutti, come ogni favola che si rispetti avvolge in una tenue cortina di sogno una realtà difficile da accettare, soprattutto per un bambino che sta scoprendo il mondo. La storia (come in un noir) inizia dalla fine, con il dodicenne Peter (Dean Stockwell) in commissariato, rasato a zero e chiuso in un mutismo impenetrabile. Poi, in un lungo flashback, il racconto del bambino allo psicologo, dr. Evans (Robert Ryan) ed è una storia agghiacciante di orfano di guerra sballottato da uno zio all’altro fino a nonno Gramp. Infine, la “disgrazia” dei capelli verdi, a creargli intorno un ulteriore rifiuto sociale. “Il verde è il colore più bello, il colore della speranza” Era cominciata così, con nonno Gramp (Pat O’Brien) che gli raccontava della nonna che non viveva senza le sue piantine e aveva lasciato quella bella aspidistra dalle grandi foglie lucide in salotto. Peter l’aveva presa e messa sul tavolo della colazione; l’indomani, uscendo dalla vasca dopo un’energica insaponata, si era ritrovato con una bella chioma verde. Perplessità iniziale, l’allegro nonnino che aveva preso la cosa dal verso giusto, divertimento e boccacce di Peter davanti allo specchio, la ragazzina che passava sotto la finestra gli aveva detto: “Very nice!” Tutto bene, ma… c’è il mondo intorno, comari pettegole, il lattaio, il droghiere, i compagni di classe. Miss Brand, la maestra (una dolcissima Barbara Hale) fa un censimento: Quanti con capelli neri?otto, e biondi? sei, e rossi? uno, e verdi? uno. Domande? No, bene, passiamo alla lezione.
Purtroppo non sempre basta una brava maestra illuminata, Peter deve vivere il suo piccolo calvario che comprenderà anche una drastica rasatura a zero. Così rapato decide di andarsene in cerca di un mondo migliore, ma finirà in commissariato dove lo psicologo gli dimostrerà che non racconta balle dicendogli che capisce i bambini e può mangiare tranquillo il sandwich che ha portato per pranzo. Happy end? Per il momento, forse, ci fa capire Losey. “Quando riavrò i capelli, saranno verdi“, dice infatti Peter a nonno, maestra e dottor Knudson (Samuel S. Hinds) venuti a prenderlo. Il bambino aveva creduto nella missione che gli avevano affidato gli orfani di guerra materializzati dai posters appesi a scuola, in quello splendido intermezzo magico al centro del film: “…Dovunque andrai tutti diranno: “Quello è il ragazzo dai capelli verdi” e poi ti chiederanno: “Perchè hai i capelli verdi?” E tu glielo dirai. “Perchè io sono un orfano di guerra e i miei capelli vi ricordano che la guerra fa tanto male ai bambini”. E tu devi dirlo a tutti: ai russi e agli americani, ai cinesi, agli inglesi, ai francesi, a tutti i popoli del mondo, che non vi dovrà essere un’altra guerra … E se la gente ci darà ascolto, non ci sarà un’altra guerra, non ci saranno più guerre nel mondo”.
Peter, convinto finalmente di non essere un fenomeno da baraccone ma un portatore di pace, aveva fatto apostolato in paese, con il risultato della rapatura a zero. “Non mi hanno voluto credere, non mi hanno ascoltato“, era stata la mesta conclusione prima della fuga. Ora ha ricominciato a credere, ha anche capito che i genitori non l’hanno abbandonato, sono morti lottando per il suo destino e quello di tanti altri bambini, ma Il ragazzo dai capelli verdi non vuol essere una favola buonista, l’apologo si chiude qui a cerchio, e lungo la circonferenza di un cerchio non c’è soluzione di continuità, tutto può ricominciare. Per quanti sforzi si facciano e canzoncine si cantino, non c’è niente che possa compensare uno sbilanciamento simile degli equilibri. La violenza della tranquilla provincia americana è negli sguardi dei bravi borghesi sul piccolo corpo estraneo dai capelli verdi, il bullismo nella crudeltà persecutoria dei compagni di scuola; riarmo precauzionale e guerra come “sola igiene del mondo” traspaiono nei discorsi in drogheria delle massaie che il piccolo Peter ascolta allibito, quella guerra che per gli Stati Uniti si era rivelata una buona risorsa economica, dopo la crisi del ’29, e che aveva sganciato bombe su Hiroshima e Nagasaki solo tre anni prima.
La “forza colorata di ragione” di machiavelliana memoria, quella che punta sulla paura del diverso (“Ti piacerebbe che tua sorella sposasse uno con i capelli verdi?”) per coagulare i peggiori istinti di difesa del corpo sociale, fa di questa storia fantastica un apologo amaro, senza un finale che si possa, a ragione, definire lieto (continua nella pagina successiva…)