martedì, Novembre 5, 2024

30° Torino Film Festival – Retrospettiva Joseph Losey 1/6: dai primi film al noir

Ma Losey non perdona. Dopo lo squallido intermezzo nel motel a Las Vegas, che più che nido d’amore è stato il lucroso investimento immobiliare in cui Webb ha messo a frutto i proventi del testamento, le leggi ineluttabili della natura riprendono il loro corso e presentano il conto. Susan è incinta da troppo tempo e far passare il nascituro come figlio del defunto è impossibile, in giro si sa che era sterile. La situazione si ribalta, dopo la breve illusione di un lieto fine. Far perdere le tracce di sè, almeno per un po’, è possibile solo nel deserto, quel paralizzante risucchio nel vuoto che sembra fuori della porta di casa in tanto cinema americano. Se può essere un sogno possedere un motel e veder passare tutti i giorni macchine e uomini all’insegna dell’effimero, questa ora è la realtà, una landa desolata dalle origini del tempo, il vento che si alza improvviso e Susan che geme in preda ai dolori del parto, dando alla luce un figlio che nessuno sarà disposto a lasciare alla vedova omicida: il bianco e nero netto del noir diventa opaco, come l’occhio di Webb braccato, o quello della mdp avvolta da nuvole di polvere. Nel deserto assistiamo ad uno dei finali più belli di tutta la filmografia noir. Webb, uomo di un dualismo esasperante, angelo e diavolo insieme, egoista e vanesio, forse sinceramente attratto da Susan ma non abbastanza da non pensare ai soldi, in cerca di riscatto sociale e assassino non per vocazione, vivrà in diretta la metafora della sua vita, arrampicandosi su per la costa pietrosa e scivolando continuamente all’indietro, fino al ruzzolone finale.

Il formalismo asettico del cinema di Losey mette a nudo senza pietà contraddizioni e dissonanze, i coni d’ombra che l’io rimuove si annidano sul fondo e fanno dei suoi personaggi “des faux faibles – osserva Deleuze – les personnages de Losey ne sont pas des faux durs, mais ils sont condamnés d’avance par la violence qui les habite”.
Essere “abitato dalla violenza” è la pulsione omicida del protagonista di M, Martin (David Wayne), corrispondente dell’Hans (Peter Lorre) di M, il mostro di Düsseldorf  di Fritz Lang.
Adattamento americano della storia, Los Angeles e dintorni al posto di Berlino e Spandau, Ernest Laszlo direttore della fotografia in cambio di Fritz Arno Wagner, ma non da meno nella “rappresentazione dell’orrore”, identica è l’istanza politica sottesa alle due storie. Non è un caso che Losey abbia accettato, nel ’51, la proposta di Seymour Nebenzal, produttore nel ‘31 dell’originale di Lang, di fare un remake del capolavoro del maestro viennese, il più brechtiano dell’universo di Lang, film in cui colpe individuali e mali sociali formano un groviglio inestricabile e l’atto d’accusa contro la società tedesca è implacabile. M mantiene la matrice langhiana e funziona anch’esso da grimaldello per mettere a nudo i mali della società, a dimostrazione che un noir della Germania degli anni ’30 poteva, senza troppi problemi, spostarsi nell’America degli anni ’50. Su Martin, però, Losey punta un obiettivo più interessato all’interiorità del personaggio, perso nella metropoli spietata e alienato dalla sua storia individuale. Violenza privata e violenza sociale trovano punti di convergenza in una società in decomposizione, si compenetrano nel disfacimento mentale di un individuo a cui sono state corrotte fin dalle radici le possibilità di una buona avventura nella vita. I toni del thriller psicologico si fondono con le modulazioni del gangster movie, la giungla d’asfalto trova corrispondenze nel labirinto della mente, ritmo, montaggio e fotografia operano in feconda sinergia, guidando fino alla sequenza finale, momento della verità, qui come in Lang. M ebbe vita travagliata e scarso successo di critica e pubblico, fu un flop semidimenticato e André Bazin accusò di blasfemia l’“americano” Losey, reo di aver trasferito il capolavoro di Lang e la tenebra spettrale di una Repubblica di Weimar su cui aleggiava l’ombra cupa di Hitler fra i grattacieli, i gangster e la middle class di Los Angeles.
La grande notte
è l’ultima tappa di Losey in America, film di formazione e di scontro generazionale, sguardo cupo su un mondo senza vie d’uscita: “Sapevo che stavano per mettermi sulla lista nera; non avevo denaro ed era molto importante che facessi un film.” Tra i lavori più personali di Losey, con John Barrymore Jr. nella parte di George, sedicenne in crisi di crescita, che vivrà traumaticamente il passaggio nel mondo degli adulti durante i 72 minuti di quella grande notte, il film è la fredda metafora di un mondo in cui il destino spara tutti i suoi colpi e gli uomini, in difesa, accantonano l’etica del bene in quello spazio opaco in cui si dissolve la demarcazione tra bene e male. Come in Sciacalli nell’ombra, dove, senza passaggi intermedi, si salta la siepe di giardinetti ben coltivati e si finisce in distese sconfinate di pietra e rocce, strade che non hanno fine, città fantasma disabitate, spazio simbolico del nulla a ridosso di città e paesi dove il vivere associato è diventato deserto esistenziale, così l’innocenza di George, fatta di convinzioni manichee sulla distinzione fra il bene e il male, sarà sconfitta dagli incontri fatti nel corso della lunga notte metropolitana. Era il lontano 1951, per Losey si preparavano tempi duri e altri capolavori. (1/6 continua…..)

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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