Il trittico Pinter
Nel decennio fra il ’63 e il ’71 il cinema di Losey si apre alla collaborazione con Harold Pinter e Il servo (1963) è il primo di uno straordinario trittico che sarà completato da L’incidente (1967) e Messaggero d’amore (1970). Ne Il servo, capolavoro che segue immediatamente la prova di lodevole impegno umanitario ma di scarsa rilevanza artistica che è The Damned (storia di bambini rapiti e destinati a test nucleari), aleggia, palpabile, quel sottile disagio che impone di reprimere inconfessabili pulsioni in gesti compassati. È un ordine mentale che si riflette in un ordine sociale, ma il ribaltamento di quest’ordine non produce la risata liberatoria della commedia.
Qui il gioco è al massacro, il vincitore ha diritto di vita o di morte sul vinto, chi era servo prima, colui al quale si poteva ordinare di pulirti gli stivali, sarà poi lui a schiacciarti, basta solo che sia capace di arrivare fino in fondo. Barrett (Dirk Bogarde), il raffinato proletario, riesce. Arriva nella signorile casa di Chelsea sobrio ed elegante come solo un maggiordomo inglese sa essere, un leggero colpo alla porta per entrare, la casa è aperta, vuota di arredo, poche poltrone, oggetti alla rinfusa qua e là. Una casa da sistemare, penserà lui a tutto, dalla direzione dei lavori di restauro alla cucina, in cui eccelle, particolarmente nei soufflé. Nel bovindo, su una sdraio di fortuna, sta dormendo, in piena luce e in posa scomposta, il biondo baronetto Tony (James Fox). È evidente, fin dalla prima scena, chi sarà il vincitore. Losey e il suo grande fotografo Douglas Slocombe usano movimenti di macchina, giochi di luci e ombre, bianco e nero, come un poeta la penna, un pittore il pennello, uno scultore l’argilla. Tutto è fatto percepire a fior di pelle, sembra un racconto ma non lo è, in realtà potremmo dire che non succede nulla, eppure per 116 minuti abbiamo la sensazione continua che stia per accadere qualcosa di tremendo, noir e thriller sono in attesa che si decida, ma non avviene nulla del genere. Dal romanzo di Robin Maugham, sceneggiato da Harold Pinter (che, alla Hitchcock, appare fra le comparse al ristorante) Tony e Barrett, Vera (Sarah Miles) e Susan (Wendy Craig) mettono in scena un gioco delle parti in cui, con movimento circolare e progressivo, queste si ribaltano, e il dominus diventerà il servus, le donne resteranno figure-spalla, importanti per segnare tappe successive e inserire uno dei due assi dell’azione, la logica sessuale come meccanismo di gestione del potere, ma l’asse centrale resta il potere fine a sé stesso, e questo finisce tutto nelle mani di Barrett.
“La mia sola ambizione è servirti“, dice Barrett a Tony davanti al camino mentre giocano a carte.
Partendo da questa specie di ossimoro, Barrett condurrà il gioco fino al limite estremo, là dove i due termini si conciliano e potrebbe dire, ma non ce n’è più bisogno, “La mia unica ambizione è dominarti”. Barrett si è insinuato nella vita di Tony con una maschera perfetta, tanto quanto è perfetta la maschera di un film che sembra ancorato alla realtà, indugia con minuzia su oggetti tangibili di una quotidianità rassicurante (vaso con fiori, vassoio della colazione, bicchieri, cuscini del divano, specchi, telefono), ma si svolge tutto nell’involucro mentale dei personaggi, di cui seguiamo le evoluzioni come se fossero reali, salvo chiederci, alla fine, chi siano veramente, da dove vengano, che progetti abbiano.
Nulla, solo epifanie improvvise per dar corpo a metafore, violenti rapporti di classe, tensione erotica uomo/uomo che si riproduce e si autocompensa, rimossa, in quella uomo/donna. Bogarde è ancora protagonista ne L’incidente, perfetto interprete del represso professor Stephen cattedratico di filosofia a Oxford, attore per cui Losey e Pinter dovettero lottare non poco con la produzione.
“Perché vuole Bogarde? Chi conosce Bogarde?” sbraitava Spiegel, il produttore, convinto, a ragione, che Richard Burton avrebbe fornito migliori prospettive d’incassi.
“Bogarde non è una scelta assoluta, ma Harold ed io lo preferiamo a Burton per mille motivi”, fu la risposta di Losey, e fu così che Dirk Bogarde, Stanley Baker e Jaqueline Sassard, con l’ottima collaborazione di un giovanissimo Michael York, diedero il volto ai personaggi del romanzo di Nicholas Mosley, “straordinario per la modernità dello stile” disse il regista. Implacabile contrappunto fra pulsioni erotiche e sensi di colpa, L’incidente è il caso che scombina le carte, costringe a guardarsi allo specchio e scoprire su quale alto tasso di ipocrisia e perversione si regga quell’ universo dorato in cui tutti si cullano spensierati, fatto di raffinate letture e prati accuratamente rasati, matrimoni tenuti in piedi ad ogni costo e amanti occasionali e compiacenti. Come in un noir, un arrivo inaspettato sconvolge l’ordine. È Anna (Jaqueline Sassard), arrivata al college dall’Austria, affascinante, enigmatica e indifferente a tutto, aristocratica e di pochissime parole. È lei il detonatore, il polo di attrazione dei tre uomini, falene impazzite in un odio reciproco, accuratamente mimetizzato nei rituali sociali o affogato nell’alcool. Ancora il sound di John Dankworth per commentare le scene, graffiante o morbidamente sensuale, come ne Il servo e poi in Modesty Blaise e La scogliera dei desideri. Il crash di lamiere contorte nella notte davanti alla casa del compassato Stephen apre e chiude il lungo flashback che la memoria del professore ricuce, guardando Anna sotto shock nascosta in camera, e così sottratta alle indagini troppo compromettenti dei poliziotti.
Spariti di scena Charley (Stanley Baker) e il giovane William (Michael York), l’ordine consueto di una placida vita borghese, con moglie, figli e cane al loro posto, tornerà ben presto, mentre il cerchio si salda intorno alla casa dalle finestre illuminate avvolta nel buio.
Messaggero d’amore chiude il trittico con una meditazione malinconica, forse la più dolorosamente spoglia di speranza, aspirazioni, o solo miraggi, del cinema di Losey.
Tratto dal romanzo di L.P. Hartley, L’età incerta, l’“intermediario” è Leo, tredicenne orfano di padre e di modesta condizione sociale, ospitato dalla ricca famiglia dell’amico Marcus (Richard Gibson) per un’estate dei primi del ‘900 nella sontuosa villa del Norfolk. Il titolo italiano (Messaggero d’amore) introduce una componente romantica decisamente fuori registro. Il ruolo di Leo (Dominic Guard) si colloca tra Marian (Julie Christie) – sorella maggiore di Marcus, donna angelicata di cui il ragazzo subisce un fascino che sarà per la vita – e il carnale fittavolo Ted (Alan Bates): Leo è il “postino”, usato senza scrupoli per portare messaggi e fissare incontri fra i due amanti uniti da una relazione clandestina, un amore impossibile in attesa del cospicuo matrimonio di Marian con Lord Trimingham (Edward Fox) imposto dalla famiglia. Naturalmente Leo viene blandito in vario modo, è un piccolo, innocuo e ingenuo ragazzo che fa tenerezza, e, soprattutto, il suo compito è molto delicato. Basterà, infatti, che si rifiuti una volta di portare il messaggio perché l’eterea Marian si scagli contro di lui con frasi sprezzanti, grondanti ferocia di classe. L’innocenza di Leo è così totale, e così a rischio, da impedirgli di capire, se non troppo tardi, il grado di asservimento a cui è costretto, e di cogliere da subito l’aria di paternalistica bonomia usata nei suoi confronti, essere “inferiore” in un mondo di privilegiati. Il rapporto servo-padrone è riproposto qui a più livelli, e mina fino alle fondamenta sentimenti, attese e ragioni per vivere.
Leo Colston (ora Michael Redgrave), ormai anziano signore inaridito da una vita solitaria e irrisolta, personaggio a cui Losey affida il lungo flashback memoriale e nessuna battuta nella scena finale, solo un volto chiuso in un’atonia dolorosa, capirà che, sì, “il passato è una terra straniera, dove tutto si svolge in modo diverso” ma non c’è risarcimento possibile nel ricordo di una vita non vissuta. Nessuna recherche, dunque, né felicità, nel recupero della realtà extratemporale della memoria. L’incapacità di comunicare è la stessa, ora come allora, le barriere identiche, e la donna che lui ha amato in silenzio per tutta la vita gli affida ancora un messaggio, questa volta per il “figlio della colpa” a cui lui, testimone, dovrà raccontare la storia vera di quel tempo lontano. Ma vera per chi? Le ultime parole di Marian danno la misura della distanza, gelida, immobile, misurata da un tempo immemore nella sua eterna contemporaneità:
“Lei venne dal cielo per renderci felici, e anche noi lo abbiamo reso felice, vero? A lei affidammo il nostro grande tesoro, senza lei non avremmo mai saputo cosa fosse. Non è una grande cosa? Ricorda come le piaceva portare i nostri messaggi? Tenere unita la nostra felicità?” Gocce di pioggia rigano i vetri della macchina, le stesse dei titoli di testa. Leo guarda dalla strada la grande casa del Norfolk, lo sguardo è distante, come la casa sul fondo scena, vuoto di emozioni, come una grigia giornata di pioggia.
Il pianoforte di Michel Legrand picchia forte sui tasti e apre uno spazio sonoro che, solo, è capace di contenere tutte le immagini e le parole inesplose. (continua nella pagina successiva…)