Caccia sadica (Figures in a Landscape)
“pensiero seriale su un universo in perpetua espansione”
Lo spazio scenico come luogo dell’“eccesso”, una delle cifre stilistiche di Losey, [così definito da Jean Starobinski (( Jean Starobinski, Les Enchantresses, Ed. du Seuil, Paris 2005; trad. it. Le incantatrici, EDT, Torino 2007 )) a proposito del Don Giovanni, 1979] è prefigurato in Caccia sadica (1970), dove diventa una realtà virtuale inedita e straniante, paesaggio (landscape) reale attraversato da persone (figures) reali, ma con la fisicità illusoria dell’immagine allo specchio. È l’altrove dei sogni, dove l’uomo corre ma resta sempre fermo. Film che con Messaggero d’amore chiude questo fertile decennio (i due film escono a distanza di due mesi l’uno dall’altro) Caccia sadica ci proietta lontano da prati all’inglese e ville edoardiane, in un road movie girato tra Andalusia e Sierra Nevada, spazio visivo fortemente connotato e perciò tanto più eccessivo e deflagrante nella sua illusorietà. Due uomini braccati corrono, un elicottero li insegue, senza tregua e senza mai avere la meglio su di loro. Come dalla console di un video game, un occhio li spia dalla cabina di pilotaggio, vuol colpirli, ma può anche esserne colpito. Dal romanzo di Barry England, sceneggiato dalla penna corrosiva di R. Shaw e magnificamente fotografato da H. Alekan, Figures in a Landscape mette in scena un role-playing game all’ultimo sangue, protagonista l’uomo, antagonista la solitudine, tratto distintivo l’inconoscibilità, paradigma di base la sconfitta. Mac (Robert Shaw) e Ansell (Malcolm McDowell) sembrano evasi, lo fanno supporre le mani legate dietro la schiena e lo stato di evidente agitazione, ma nulla è detto a conferma, alle loro spalle solo pagine vuote o frammenti di storie lacunose. Dopo qualche tempo le mani si liberano (stranamente legate da corde, non manette) e un fucile è fortuitamente sulla loro strada.
Attraversano spiagge solitarie, radure boschive, dirupi rocciosi, piccoli villaggi e distese di neve. Del resto dell’umanità spuntano qua e là pochi esemplari, comparse mute in momenti indecifrabili dell’azione, la sensazione di essere al confine tra mondo visibile e mondo invisibile è insistente, che si tratti di un pastore di capre ucciso fuori scena dal più anziano dei due, inspiegabilmente perché ancora a mani legate, o di un morto imbalsamato in un interno notturno, vegliato da una inquietante madre assolutamente catatonica, ma improvvisamente urlante come un’Erinni perché le portano via il pane. Tutto è illimitato e indefinito, l’apparente realismo della vicenda innesca automatismi di immedesimazione e di attesa in chi guarda, ma intanto sottrae nessi logici spazio/temporali e prospettive credibili alle azioni. È una fuga impossibile, a dir poco assurda, eppure caparbiamente prolungata, e nelle condizioni più estreme. Claustrofobia ambientale tipicamente loseyana esercitata en plein air, i due protagonisti sono bloccati in una iterazione di situazioni senza via d’uscita, dentro uno spazio aperto e reale che sembra restringersi ad inquadratura bidimensionale soffocante, Piani sequenza, dolly e panoramiche per un caleidoscopio vertiginoso di immagini in cui la mdp sembra diventare una trottola: l’elicottero plana a capofitto verso terra, sfiora chiome gonfie di fogliame, ingaggia un rimpiattino mozzafiato con i due uomini sollevando nuvole di polvere.
Questi corrono fra i dirupi con le mani legate, rotolano e non si fanno mai male, guadano corsi d’acqua spuntati dal nulla nel deserto. Campi di granturco bruciano, devastati da bombe tipo napalm lanciate dall’elicottero, maiali, capre e contadini fuggono, sembra di essere in Vietnam, ma ecco all’improvviso distese innevate, mai calpestate da impronta umana, eppure abitate da soldati schierati in vetta, in formazione di guardia. È la frontiera, l’oltre, il confine dello schermo, o dello specchio, là dove la speranza muore.
È la fine di un gioco in cui tutti sono perdenti, una descensio ad inferos postmoderna, estrema come una dannazione, di uomini in fuga non si sa da dove, da chi, perché, ma in fuga, come se questa fosse la condizione naturale della loro esistenza. La caccia termina, inevitabilmente, per l’impossibilità di andare oltre il confine, restare qui e combattere è una scelta. Mac la paga con la striscia rossa di sangue sulla neve, Ansell è più giovane, niente da ricordare con rabbia, può lasciare che le guardie lo prendano. Game over, per il momento. È andata in scena la condizione umana, nulla è spiegato, giustificato, circostanziato, il film avanza per inspiegabile necessità interna, fino al suo esaurirsi in un finale che chiude la diegesi secondo le buone regole della drammatizzazione, ma lascia irrisolte tutte le istanze di fondo. Losey non racconta ma rappresenta, mette in scena metafore, le moltiplica e ne fa affreschi di un teatro cinematografico in cui prende forma il nulla, e diventa tragedia, farsa, commedia, in una parola l’uomo, in tutte le sue sfaccettature.
In bilico fra road e crime movie, film carcerario e apologo sulla costrizione e la libertà, scelta fatale fra innocenza e colpa, Caccia sadica è un susseguirsi di spazi in continua formazione, gravitazione/attrazione e il loro contrario, senza nulla che distingua il male dal bene, i giudici dagli imputati, i colpevoli dagli innocenti. La musica di Richard Rodney Bennett è parte integrante del linguaggio del film, perfetta coesistenza di serialismo e lirismo in frammenti di spazio sequenziali inscindibili. L’ascolto musicale dà la percezione della mutevolezza, nulla è dato, la modificazione del tempo è anche modificazione dello spazio, la percezione visiva si fa acustica, “pensiero seriale su un universo in perpetua espansione “ (Pierre Boulez).