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30° Torino Film Festival – Retrospettiva Joseph Losey 3/6: Dagli anni sessanta a Caccia Sadica

Trentasette fra lungometraggi e corti, un volume di saggi e testimonianze edito dal Castoro: è la ricca retrospettiva curata da Emanuela Martini che quest’anno il TFF propone su Joseph Losey, maestro del cinema morto nel 1984, regista intorno al quale il dibattito critico e l’attenzione erano da troppo tempo assopiti.

Leggi la prima parte dello speciale di approfondimento dedicato a Jospeh Losey, dai primi film al noir
Leggi la seconda parte dello speciale di approfondimento dedicato a Joseph Losey, Gli anni cinquanta

 

Gli anni sessanta

A partire dagli anni Sessanta, e per più di vent’anni, quella di Losey sarà una ricerca inesausta di forme, storie, volti, paradigmi visivi e trame sonore.
Ancora le suggestioni del bianco e nero in cinque film, Giungla di cemento (1960); Eva (1962); Il servo (1963); The Damned (1963); Per il re e per la patria (1964), poi sarà l’era del colore. Ultimo atto del genere poliziesco, Giungla di cemento vede il talento di Robert Krasker (Il terzo uomo, 1949) alla fotografia, John Dankworth, jazzista di rango, alla colonna sonora (tornerà per altre collaborazioni con Losey) e Stanley Baker in una delle sue migliori performance, da criminale stavolta, dopo il ruolo da ispettore Morgan. Intercambiabilità di ruoli per una implacabile messa in scena delle contraddizioni della società, una rapina preparata in carcere e finita con un bottino che nessuno troverà mai, corruzione dentro e fuori dal carcere, la fuga verso una libertà impossibile di Johnny Bannion, malavitoso dotato di una sua forma di lealtà che, però, non basterà ad impedirne la rovina. Il campo sconfinato, ispido di stoppie invernali che nasconde il tesoro, è parte attiva nel conflitto detenzione/libertà. Lì finisce la sua corsa, all’uomo non resta che concludere con la morte una ricerca impossibile di vita diversa, forse di amore, mentre gli inseguitori scavano frenetici, e inutilmente, fra le zolle ghiacciate.
Crime movie
carcerario, oscuro, ossessivo, predispone agli spazi stranianti di Eva e Il servo, luoghi del disagio, comunicazione verbale racchiusa in formulari convenzionali, gestualità irrigidita in spazi asfittici, il fluire delle scene costretto in specchi chiusi da cornici barocche.

La cornice di Eva è biblica e circolare. Venezia, con la scultura angolare di Adamo ed Eva a Palazzo Ducale, apre il film, mentre una voce fuori campo legge dal secondo capitolo della Genesi: “L’uomo e la donna vivevano nudi. Essi ignoravano la vergogna”.

La sequenza finale si salda a quella iniziale, dilata lo spazio in una panoramica grandangolare da San Marco all’isola di San Giorgio, le gondole ondeggiano ritmiche in primo piano, un vaporetto suona la sirena, tutto è immobile nel silenzio metafisico della piazza vuota, ripresa dall’alto. Nella cornice si inscrive la storia di un’ossessione amorosa e di uno svuotamento progressivo delle ragioni per vivere, un disastro esistenziale che si consuma lento in coordinate spazio-temporali meticolosamente studiate e straordinariamente sfuggenti. Stretta fra le due sequenze d’inizio e fine, la cronaca annunciata di una caduta irrefrenabile, in un noir che, nelle mani di produzione e distribuzione, subì tagli spietati, assurde ferite su quella trama fragile di equilibri visivi e narrativi che solo l’edizione originale, con sottotitoli francesi, restituisce intatta. Liberamente tratto dal romanzo Eve (1945) di James Hadley Chase, sceneggiato da Hugo Butler e Ryan Jones, il film ruota intorno a tre personaggi, lui, lei e l’altra, in un intreccio che, dai toni iniziali della commedia leggera, va man mano assumendo i colori della tragedia. Tyvian Jones (Stanley Baker) è uno scrittore inglese. Ha raggiunto la fama con un bestseller da cui il regista Sergio Branco (Giorgio Albertazzi) ha tratto un film premiato alla Mostra del Cinema. C’è però qualcosa che lo tormenta, lo scopriremo alla fine del film, quando il suo processo di degrado avrà raggiunto il limite estremo, ma i segni sono evidenti nella gestualità nervosa e aggressiva, nel bere smodato, negli occhi febbricitanti.

Tyvian è un debole e un amorale, vive di compromessi e abdica facilmente alle sue responsabilità. Schiacciato nella morsa di un amor sacro incarnato da Francesca (Virna Lisi), attrice del suo film e donna dolcissima, che lo ama oltre ogni umana comprensione, e di un amor profano travolgente per una squillo di lusso, Eve (Jeanne Moreau), sarà capace di comportamenti incomprensibili, dettati da pulsioni contraddittorie e ugualmente letali, frutto di insensatezza e frustrazione, velleità e impotenza. Eve (Jeanne Moreau) sembra l’incarnazione di una metafora, nella sua figurina sensuale ed elegante, vestita da grandi sartorie e mollemente adagiata su fuoribordo di lusso, Losey condensa la fatuità crudele di una dolce vita che si consuma, tra Roma e Venezia, in rituali immutabili. Committenti e artisti, jet set internazionale, discorsi frivoli e intelligenze esibite come carte di credito, roulette e coktail a fiumi, piccoli faccendieri e “uomini di rispetto”, donne pronte a tutto per la loro piccola quota d’aria: c’è un mondo dalla doratura pronta a scrostarsi, lasciando il bianco sudario della morte e il nero delle gondole che vogano verso San Michele, il cimitero di Venezia. L’apparente realismo delle immagini si frantuma negli specchi che le riflettono, gli oggetti reali diventano simboli, ogni frase, gesto, inquadratura è la tessera di un puzzle di cui si è perso il disegno e i punti di riferimento sono quinte di un teatro dell’immaginario. (continua nella pagina successiva…)

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