martedì, Novembre 5, 2024

30° Torino film Festival – Retrospettiva Joseph Losey 4/6 – Lo sguardo di Losey sulla Storia

Joseph Losey, maestro del cinema morto nel 1984, regista intorno al quale il dibattito critico e l’attenzione erano da troppo tempo assopiti; quarta parte dello speciale in sei parti curato da Paola Di Giuseppe e dedicato al grande regista Americano...

Trentasette fra lungometraggi e corti, un volume di saggi e testimonianze edito dal Castoro: è la ricca retrospettiva curata da Emanuela Martini che quest’anno il TFF propone su Joseph Losey, maestro del cinema morto nel 1984, regista intorno al quale il dibattito critico e l’attenzione erano da troppo tempo assopiti.

Leggi la prima parte dello speciale “dai primi film al noir”

Leggi la seconda parte dello speciale “Gli anni cinquanta”

Leggi la terza parte dello speciale “dagli anni sessanta a caccia sadica”

Fra il ’64 e il ’76 Losey affronta per quattro volte un tema storico e sceglie momenti chiave per guardare ai destini individuali riverberati dalle grandi tragedie dell’umanità. Guardare al passato e tornare al presente, nel cinema di Losey, significa riaffermare un “continuum temporale, coesistenza del presente, del passato e del futuro, ai quali solo il bisogno che hanno gli uomini di frammentarli in unità temporali conferisce un limite.”

La Grande Guerra, la Rivoluzione sovietica, il processo a Galileo e la Shoah fanno da sfondo a Per il re e per la patria (King & Country, 1964); L’assassinio di Trotsky (The Assassination of Trotsky; 972); Galileo, 1975; e Mr. Klein, 1976. Se King & Country e Mr. Klein appartengono senza dubbio al numero delle sue grandi prove, su The Assassination of Trotsky il giudizio critico non è del tutto positivo, nonostante l’ottimo cast (Richard Burton, Alain Delon, Romy Schneider, Valentina Cortese, Giorgio Albertazzi) e l’argomento appassionante, l’assassinio del fondatore della IV Internazionale e avversario di Stalin, rifugiatosi a Città del Messico e ucciso a sangue freddo dal sicario Frank Jackson, inviato dai servizi segreti sovietici su ordine di Stalin. Opera apertamente politica, che affida ampie suggestioni al passaggio frequente dei murales di Clemente Orozco e Diego Rivera e alle grandi manifestazioni di piazza, risulta poco convincente nella sceneggiatura di Nicholas Mosley, piuttosto piatta e incapace di dare giusto slancio alle capacità dei due grandi protagonisti, Burton (Trotsky ) e Delon (Jackson). La ricostruzione dell’omicidio è in ogni caso avvincente, sia per la luce che getta su un episodio avvolto da molti misteri e imprecisioni documentarie, sia per lo stupefacente e asettico realismo visivo che Losey sempre costruisce intorno alla violenza.

Del Galileo fu lo stesso autore a dichiararsi insoddisfatto: “Credo che si possa dire con sicurezza e a buon diritto che non sia mai stata realizzata una sola riduzione cinematografica accettabile dell’opera di Brecht”.

Se una simile autosvalutazione è comprensibile (difficile che un artista si dichiari soddisfatto della sua opera) e il dramma di Brecht su cui è modellato un confronto arduo per chi, come Losey, era vissuto per anni in un sodalizio umano e artistico totale con il grande drammaturgo tedesco, va anche detto che il giudizio su questi film travalica una semplice valutazione di carattere estetico. Losey si avvicina a oggetti della Storia evitando ideologismi e interpretazioni a senso unico, usa l’intelligenza storiografica per tradurre in cinema vicende di individui e popoli le quali aderiscono a quell’idea di “cinema antropomorfico”, proclamata da Visconti nel ’43, secondo cui “il peso dell’essere umano, la sua sola presenza, è la sola ‘cosa’ che veramente colmi il fotogramma, che dalle passioni che lo agitano acquista verità e rilievo” (( L.Visconti, Il cinema antropomorfico, in Cinema, n. 173-174, 1943 )) La prospettiva su quegli orizzonti ne esce così arricchita da uno stimolo conoscitivo che induce a riflessione profonda sulla condizione umana. 

La Storia è un’immane tragedia, la volontà di potenza ne è il motore; sudditanza, violenza e sopraffazione, realtà immanenti all’uomo ed esemplificate nelle vicende dei singoli. Meditazione politica ed etica, la Storia raccontata da Losey traduce nel linguaggio del cinema la complessità e contraddittorietà del reale, mette in scena vite celebri o storie oscure per parlare della stessa cosa: la patologia dell’orrore e l’affermazione della dignità umana. Le putride trincee della Grande Guerra, dove si può fucilare un innocente perché disertore senza saperlo, gli sfarzosi saloni pontifici, dove il Sant’Uffizio annulla con tranquilla coscienza le conquiste di Galileo, i vagoni piombati diretti ad Auschwitz, dove Mr. Klein scopre che il destino di ogni uomo è anche il suo, l’assassinio come risoluzione di controversie politiche in tempi di negazione del diritto in ogni sua forma, sono queste le scelte di un cinema che non ha mai smesso di porre l’uomo al centro della sua indagine. Galileo è certo un film imperfetto, gli stacchi musicali, affidati a tre voci bianche che fungono da didascalie di passaggio, dopo un po’ generano peso. Lo stesso vale per lo spettacolo con saltimbanchi e cantanti in una piazza italiana, inutilmente lungo e privo di attrattiva. Eppure è un film ricco, intenso, tiene sospesi come se non sapessimo com’è andata, e scende in picchiata dentro le vertigini dei suoi personaggi. Dare una versione cinematografica al testo brechtiano era stato obiettivo costante di Losey, a lungo interdetto da ragioni politiche e difficoltà economiche, fin da quando, nel ’47, ne aveva curato con l’autore la messa in scena teatrale in America. Amore per il teatro e passione politica, condivisione del messaggio brechtiano e ammirazione per la grande prova di Charles Laughton, interprete del Galileo “americano”, tutto portò Losey a perseverare nel progetto per un quarto di secolo. Scaduti i diritti acquisiti allora dalla Paramount, poté finalmente realizzare il suo sogno di “trovare un equivalente cinematografico allo stile teatrale di Brecht, purtroppo senza Laughton, deceduto nel frattempo. Il film nasce dalla versione ritradotta in tedesco, quella del ’53, testamento spirituale e ultimo dei Versuchen, “tentativi”, quei continui rimaneggiamenti rigenerativi a cui Brecht sottoponeva le sue opere. Il cast è di prima qualità: Chaim Topol, interprete brechtiano di lungo corso, nella parte dello scienziato, Tom Conti, Edward Fox, Michael Gough e Judy Parfitt nei ruoli maggiori, ma gran risalto hanno anche ruoli minori come quello di Michel Lonsdale, un cardinal Barberini, futuro papa Urbano VIII, capace di squadernare in due brevi flash una sintesi quanto mai efficace dello spirito della Controriforma, o la breve apparizione di Colin Blakely, mercante di Venezia che sembra scaricato di peso dalle scene shakespeariane. Girato in un teatro di posa in Inghilterra per lo scarso budget che impedì di trasferirsi sui luoghi originali, Galileo mantiene intatta la provenienza teatrale, che non risulta affatto dissonante con il “cinema da camera” di marca tipicamente loseyana. La scenografia ha suggestioni pittoriche, tableaux vivants ricostruiti con cura calligrafica, anticipazioni delle performances di Greenaway su tele e affreschi del Rinascimento. Lo scienziato domina la scena, la vicenda è nota, Brecht e Losey non vogliono ottenere simpatia per il personaggio ma piuttosto sottolineare il vero senso della sua ambivalenza. Egocentrico come si addice a uno scienziato puro, o a un artista, a Galileo tutti devono perdonare qualcosa: la figlia la perdita di un marito facoltoso, il fedele allievo Andrea Sarti la sua abiura e infine la sua autoflagellazione, la Chiesa la perdita del cielo. E Galileo deve perdonare sé stesso, come ogni uomo che, senza esserlo, vive in uno sventurato mondo che “ha bisogno di eroi”. Ha abiurato per paura, non ha saputo dire di no, e questa sarà la sua pena, ma la sua scienza è più grande di lui e il tempo saprà rendere obsoleto quel conflitto. Qui non è in ballo il dissidio scienza/fede, ormai superato, il tema del Galileo è ben più ampio e vissuto sulla propria pelle dai due autori: è lo scontro tra verità e ideologia, è l’incapacità di guardare in direzione della luce, è l’accerchiamento che ignoranza, viltà, opportunismo e paura pongono intorno all’uomo che vede.

Ancora uno scenario dalla grande Storia per King & Country, un film di guerra in cui “… non si tira un solo colpo di fucile, tranne che nella scena dell’esecuzione.- dice l’autore – Volevo che tutto il film desse una rappresentazione della realtà più ampia della vita, ma capace tuttavia di offrire un’immagine sincera, insopportabile, inevitabile, della stupidità e dell’orrore, di ciò che gli uomini possono fare gli uni agli altri”. Vincitore del British Academy Award per il miglior film del 1964, fu presentato in concorso alla 29° Mostra del cinema di Venezia e Tom Courtenay ottenne la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. Bogarde, reduce dalla superba interpretazione in The Servant dell’anno precedente, non è da meno, e, insieme, formano un dittico complementare di attori, a cui Losey affida un film di rottura, dove la guerra cessa di essere spettacolo. Adattamento di Evan Jones dalla commedia di John Wilson, a sua volta ispirata a un racconto di James Lansdale Hodson, King & Country narra il processo e la condanna a morte di un soldato accusato di diserzione, durante la prima guerra mondiale sul fronte belga. In apertura il Royal Artillery Memorial di Hyde Park Corner a Londra, una sequenza di primi piani sui rilievi, ruote di carri nel fango, facce curve a terra, pugni serrati, braccia tese e convulse, elmetti caduti da teste rovesciate nello spasmo della morte: una Guernica di marmo per un canto di morte sulla Grande Guerra. 

Sono di scena il soldato semplice Arthur Hamp (Tom Courtenay) e il capitano Hargreaves (Dirk Bogarde), una trincea fangosa percorsa da topi, un cavallo stramazzato che si scioglie nella poltiglia, soldati e ufficiali uniti in un’attesa sorda del nulla, la morte, probabilmente. In lontananza, un cannoneggiare continuo sulla prima linea, lì dove tutti torneranno domani, dopo una breve tregua per ubriacarsi di acquavite rubata alla cucina, mettere in scena grotteschi siparietti con processo al topo che ha morso l’orecchio al soldato o improvvisare performance da teatro dei pazzi, con l’esecuzione della condanna a morte del soldato, disertore senza saperlo, che andrà davvero davanti al plotone il mattino dopo. Disperazione e dolore, ingiustizia e follia dell’uomo, non più traducibili in simboli e metafore, concessioni al vittimismo e al didascalismo pietoso, ancor meno con un realismo di maniera per rappresentare l’irrappresentabile, implodono in un catatonico succedersi di immagini sporche come una trincea. Suoni diluiti dalla pioggia incessante, ombre che invadono la scena e negano a volti e figure la loro integrità, spezzata da angolazioni innaturali, sospesa nella registrazione di un ordine universale delle cose violentato dalle aberrazioni della volontà. Fotografie del paesaggio devastato nella campagna di Passchendaele, luogo di una carneficina tristemente famosa di quella guerra, e cadaveri in decomposizione crivellati da parassiti, fanno da sfondo alla cella fetida in cui Hamp è detenuto, dopo essere stato arrestato da una pattuglia vicino a Calais, in un apparente tentativo di fuga dai doveri di soldato.

Il capitano Hargreaves gli è stato assegnato dalla corte marziale come difesa. In aristotelica unità di tempo, luogo e azione, nel corso di 24 ore, giunge a compimento una tragedia che ha la sobrietà compatta e inflessibile del dramma teatrale e l’incomparabile forza di suggestione dell’immagine cinematografica. I dialoghi hanno una parte centrale nel film.
Hargreaves è un raffinato borghese, inizialmente diffidente di fronte all’ex calzolaio Hamp, uomo semplice che cerca di raccontare cosa l’abbia sconvolto tanto da spingerlo ad abbandonare la prima linea senza rendersi conto che stava disertando. Una corrente di autentica comprensione umana si fa strada durante il colloquio fra i due, poche frasi, quelle che un povero diavolo da tre anni in trincea riesce a dire, eppure bastano al capitano per fargli compiere quel gesto di umana pietà nello stupendo finale del film.

Nell’ultimo colloquio con il comandante, dopo la condanna, Losey fa muovere Hargreaves lungo i margini di un cono d’ombra che sembra risucchiarlo. Al centro della scena, il viso chiaro del comandante e una lampada, sola fonte di luce, che ne illumina la calma di uomo sicuro di sé, mai sfiorato dal dubbio, mentre legge il dispaccio governativo: “Il reggimento tornerà in linea domani. Occorre tenere alto il morale. L’esecuzione deve aver luogo immediatamente… Capitano, ha perso.”

“Tutti abbiamo perso – il viso del capitano alle spalle del comandante si riflette in uno specchio – siamo degli assassini, fuciliamo un povero imbecille solo perché ha fatto una passeggiata. Tecnicamente ha disertato, ma in realtà è stata solo una passeggiata… e lei lo sa bene, vero?”

Alla famiglia di Hamp una lettera comunicherà che il soldato è caduto in combattimento, per il Re e per la Patria.

Astrattismo di stampo kafkiano per Mr. Klein, ambiguità di ruoli, vite parallele ad un tragico incrocio. Forte della sceneggiatura di Franco Solinas, il soggetto arriva a Losey dopo esser passato per Costa-Gravas e Pontecorvo e diventa un apologo sulla debolezza morale dell’uomo e sul confine tra perseguitato e persecutore, limite che si annulla quando paura ed egoismo prendono il sopravvento. Ambientata nella Parigi del 1942, è la storia di Robert Klein (Alain Delon), ricco e gaudente mercante d’arte che prospera sulle sfortune degli ebrei costretti a vendere gioielli di famiglia. Klein ha un doppio, un altro Robert Klein, stesso nome, ma ebreo e partigiano nella Francia di Vichy. Non vedremo mai il secondo Mr.Klein, il gioco deve restare ambiguo, come la vita quando confonde i piani, e a Losey non interessano le ricostruzioni filologiche dei fatti. L’uomo e il suo doppio, maschere nude al capolinea della Storia, questo è in scena. Il caso (una lettera per Klein l’ebreo, recapitata al mercante d’arte per sbaglio) farà di quest’ultimo un perseguitato, in una metamorfosi che lo risucchierà nel vortice di una discesa inesorabile verso l’inferno nel quale precipiterà anche il vero ebreo, non immune neanche lui da quell’ambiguità che presiede sovrana alle vicende umane. Il sotterfugio usato per salvarsi, alimentando l’equivoco, non ha funzionato e, insieme, si ritroveranno fra i deportati verso i campi di sterminio. Beffa atroce o vendetta della Storia, non è dato capire, certo è smarrimento di strade e vuoto brancolare nel buio di una cecità angosciosa. All’uomo, immerso in un orrore che non vede, accecato come sempre quando si crede immune dal male, privo di scrupoli e di doverosi interrogativi su ciò che lo circonda, non resterà che guardare con gli occhi sbarrati di Mr. Klein oltre le sbarre del vagone, da cui scenderà soltanto nel lager. Le immagini del Vélodrome d’Hiver alle porte di Parigi dove, nel luglio del 1942, furono portati tredicimila ebrei francesi, poi trasferiti a Beaune-la Rolande, e da lì sui treni diretti ai lager, si sovrappongono dolorosamente, con il loro amaro realismo, al senso crescente di oppressione indotto dalla vicenda di Robert Klein. Brevi flash su bambini strappati ai genitori, sobrietà estrema d’immagini, sequenze ipnotiche di rastrellamenti in quartieri svuotati di vita, con poliziotti dall’ampio mantello nero svolazzante che caricano su macchine nere un’umanità inebetita, poi ammucchiata su tram urbani che attraversano mercati gonfi di facce indifferenti: Losey parla così della Shoah, con brevi tratti di penna e un piano inclinato, quello del tunnel che va verso il treno piombato, dove gli uomini rotolano trascinati giù, e non ci sarà ritorno

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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