Inoltre, nessuna opera di Mozart rispetta meno del Don Giovanni le regole della drammaturgia classica, i luoghi hanno quella che è stata definita una “sconnessa molteplicità … non c’è un terreno sicuro sotto i piedi” (( Egon Voss, L’unità sfasciata. Saggio sulla drammaturgia del Don Giovanni, da Studien zur Musikgeschichte )) e per la scansione dei tempi valgono le stesse osservazioni.
Manca l’aristotelica unità di azione, e le osservazioni di Egon Voss sulla drammaturgia dell’opera mettono a fuoco aspetti del Don Giovanni di sicuro interesse per capire la decisione di Losey di farne un film: “Non essendovi unità di azione, ma un seguito di eventi separati, è logico che il protagonista non abbia un antagonista chiaramente individuabile e, soprattutto, mantenuto nel corso di tutta l’opera. Secondo il principio strutturale di episodi autonomi, il ruolo dell’oppositore passa dall’uno all’altro personaggio senza che alcuno riesca a mantenerlo. Ma il fatto che questo ruolo sia rivestito (o sembri esserlo) ora dall’uno ora dall’altro, anziché rinforzare la posizione dell’antagonista l’indebolisce o addirittura la cancella: viene in tal modo mostrata l’impotenza di una società che si rende persino ridicola attraverso i propri vani tentativi di superarla”.
L’ambivalenza di Mozart nella rappresentazione del tragico, che irrompe nell’impianto comico/giocoso con effetti stranianti, la compresenza di comico e serio nel generare il grottesco, elevandolo a cifra esistenziale, la novità dell’effetto drammaturgico attraverso l’integrazione dei due fattori, sono convergenze molto evidenti fra due poetiche che, nella musica la prima, nel cinema la seconda, trovano i loro codici espressivi.
La complessità e contraddittorietà del reale è terreno comune, la profondità che si decanta in sublime leggerezza e tesse leggerissime trame sonore e visive è cifra stilistica di entrambi.
Peculiarità dell’opera in musica è far intuire la trama psicologica al di sotto della trama dei dialoghi, la concatenazione drammaturgica tra tessuto sonoro e riflessi psicologici si affida alla musica per la diegesi. Losey integra la musica con una iconografia e un ricco repertorio di materiali visivi, “sorta di divertito bricolage geografico – pittorico” ( Per un’illuminante analisi del rapporto Losey/Mozart/Palladio e spazio architettonico nel cinema cfr. Antonio Costa, Il cinema e “la casa di villa”, p.10 ss. in WP WORKING PAPERS, Università Iuav di Venezia, DADI ) che apre le porte delle sale di villa La Rotonda e villa Caldogno a Vicenza, sfiora gli affreschi alle pareti, indugia sotto i colonnati, scruta negli angoli d’ombra e, sull’ampia scalea centrale del capolavoro palladiano, squaderna la lista infinita delle conquiste di Don Giovanni, che il fido Leporello si affretta a sottoporre a Donna Elvira che non s’illuda sul suo padrone.
Il pensiero di Gramsci, posto in apertura, mette in collegamento il recupero dei miti del libertinismo settecentesco con la denuncia del sistema capitalistico, tema caro e sempre riproposto da Losey, nelle forme più varie dettate dalla sua fantasia creatrice.
Servi e padroni, potere e sopraffazione, la perenne dicotomia introdotta dall’uomo nell’ordine del mondo, si riproduce intatta nei ruoli del dramma giocoso di Mozart come nei film di Losey.
“I fenomeni morbosi più svariati “ di un mondo in cui “… il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, si ripropongono sulla superficie specchiante dell’atto del vedere, rappresentazione del reale in forma udibile, nella musica, in forma visibile, nel cinema, in entrambi esaltati dall’azione drammatica. L’allegoria si fa scoperta, per Losey “il dissoluto” è l’uomo che rompe gli argini della morale corrente, delle gabbie restrittive in cui la libertà individuale viene asservita ai riti della perpetuazione dell’esistente. Ed è facile notare che “Don Giovanni c’est lui”, l’uomo che osò sfidare i tribunali del maccartismo. La vitalità di Don Giovanni sfida la morte, attestando con l’ultima voce che gli resta il proprio “credo”. Si muove in scena con agilità leopardesca, veste di bianco o di nero integrale, modula un canto fortemente espressivo e articolato per un’opera dall’andamento cromatico ricchissimo e dai collegamenti armonici del tutto inconsueti, specchio di anomalia strutturale in cui si riflette un ordine anomalo del mondo.
Don Giovanni ha commesso il male molto meno di quanto non ne commettano i suoi accusatori, e il secondo finale dell’opera, spesso contestato, se non addirittura tagliato perché giudicato incongruo e inutile nell’economia dell’opera, è quanto di più illuminante potesse dire Mozart al suo pubblico. Losey lo mette puntualmente in scena sulla scalinata della Rotonda, proscenio ideale di tutta l’opera, chiudendo poi con la suggestiva visione di barche che si allontanano nella nebbia leggera sul Bacchiglione. Oggetto di anatemi da parte di illustri membri della comunità degli studiosi (Adorno rimproverò Klemperer di non averlo tralasciato nella sua registrazione su disco, come aveva invece fatto Mahler, a teatro, nel 1905) permette di convergere con la visione cinematografica di Losey. O, che è lo stesso, permette a Losey di trovare nel Don Giovanni vicinanze, analogie profonde, stupefacente identità di pensiero con il suo. La vita riprende uguale, rassicurante e vuota, ora che il libertino, empio ma pur sempre amato, è scomparso, e fra i sopravvissuti scorrono le parole convenzionali di piccoli uomini ottusi ed egoisti, pronti a rivendicare la tranquillità della propria vita mediocre, non immune da compromessi, quelli che la sublime baldanza di Don Giovanni ha messo tutti a nudo per poi sparire:
Donna Elvira “Io men vado in un ritiro /a finir la vita mia”
Leporello “ Ed io vado all’osteria a trovar padron miglior”
In coro Leporello, Masetto e Zerlina, mentre Donna Anna e Ottavio tubano in un angolo: “Resti dunque quel birbon / con Proserpina e Pluton;/ e noi tutti, o buona gente/ ripetiamo allegramente/ l’antichissima canzon: questo è il fio di chi fa mal:/ e de’ perfidi la morte / alla vita è sempre ugual”.
Quel sipario che cala, freddo, convenzionale, sulla tragedia, Il ritorno alla dimensione media del vivere, le luci che si spengono sul palcoscenico e l’avvilente tran tran della vita che riprende dove “… il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, portano il segno della disfatta di uno sventurato mondo “che ha bisogno di eroi”.