Reduce da una brutta ferita alla testa, uno stuntman disoccupato torna in città e intreccia una relazione con due donne diverse, mentre si divide fra provini occasionali e la ricerca di una nuova abitazione. Grazie a una delle due donne otterrà alla fine la parte del protagonista in un film che racconta di uno spettro che, incarnatosi nel corpo di un attore, interpreta vari ruoli, perdendo progressivamente il ricordo della sua essenza fantasmatica. Sembra che non accada nulla in The First Aggregate, opera prima dei cineasti mongoli Erdenibulag Darhad e Emyr ap Richard, presentata in Concorso al trentesimo festival del cinema di Torino. Ritmi rallentati, atmosfere sospese, dialoghi apparentemente insignificanti inframmezzati da indovinelli e da riflessioni sul cinema come arte dell’inganno e dell’apparenza. Il corpo massiccio del protagonista, che si aggira a torso nudo fra le stanze di case sempre diverse e sempre più vuote (la mansarda del finale, dotata solo di un ventilatore malconcio e di un telefono senza credito), sembra fare da contrappeso a un’identità personale che trascolora, si fa evanescente, ritrova se stessa nel rapporto fisico con le due amanti, per poi perdersi di nuovo nella ciclica ripetitività dei gesti (i provini per ottenere almeno una “parte a cavallo”, le continue visite agli appartamenti). Quasi un viaggio disorientato nella testa di un personaggio che si sente alla deriva, si aggira curvo per fra solenni dormite e cibi pronti, oscillando fra desiderio del nuovo e passività annichilita. Forse lo specchio (mai esplicitato) della condizione stessa della Mongolia, terra alla ricerca del proprio spazio sulla scena mondiale, fra l’abbraccio della tradizione e le sirene della modernità (una delle due amanti abbandona il paese che “non ha più nulla da offirle”, per trasferirsi in Giappone, dove vivrà in una comune di artisti). Spettri, misteriose divagazioni che rimandano ai temi della memoria e del tempo (la sveglia del protagonista si rompe improvvisamente, mentre l’orologiaio assicura che non avrebbe mai potuto funzionare), cui fa da contrappunto la consistenza materica di corpi inseriti con precisione in ambienti interni (il cinema di Tsai Ming-liang pare il riferimento obbligato), spesso ripresi attraverso spiragli e porte socchiuse (i due amanti che si preparano in bagno). Così il cinema, territorio della perdita e dell’oblio nelle conversazioni dei due amanti, diventa a sua volta materia (immagine, pellicola, ombra, con cui il protagonista si mescola e gioca, sovrapponendosi alle scene proiettate sul muro), sottofondo costante e monotono degli incontri d’amore (la tv sempre accesa). Fascinoso e di difficile catalogazione, The First Aggregate dipana il misterioso rapporto fra spirito e materia, forma e sostanza in una dimensiona sobria e pensosa, presentandosi come una delle opere più complesse del catalogo torinese.