Dopo un fortunato passaggio al Sundance Film Festival del 2012, approda nella sezione Festa Mobile della kermesse torinese The Sessions, biografia degli ultimi anni di vita del poeta e giornalista poliomielitico Mark O’Brien, deceduto nel 1999 all’età di 49 anni (di cui circa 43 trascorsi in un polmone d’acciaio, unico elemento d’arredo dell’appartamento che condivide con un placido gattone). La medesima vicenda era stata al centro di Breathing Lessons: The Life and Work of Mark O’Brien, che nel 1996 valse a Jessica Yu l’Oscar per il miglior documentario. L’australo-statunitense Ben Lewin, a propria volta affetto da poliomielite, firma invece una commedia indipendente (basata sul saggio di O’Brien “On Seeing a Sex Surrogate”), velata di tenerezza e umorismo, inserendosi a buon diritto nel filone delle pellicole che fanno della malattia del protagonista l’asse portante della narrazione, ma aggirando abilmente la retorica del dolore (“ironia vincit omnia”. Sul genere, il cancer movie di Jonathan Levin 50/50, presentato a Torino lo scorso anno). Mark O’ Brien, che può muovere soltanto la testa dopo essere stato colpito dalla polio all’età di 6 anni, a 38 sente avvicinarsi la propria data di scadenza e sembra avere un’ultima richiesta: non morire vergine. Le vivaci discussioni con il parroco locale non lo distolgono dal proposito (la dialettica fra fede e istinto finisce per rappresentare una delle chiavi comiche del film), e alla fine Mark decide di affidarsi alla terapista Cheryl Cohen Greene che, in sei sessioni pratiche, gli insegnerà a conoscere il proprio corpo e lo inizierà ai segreti del piacere. Che cos’è l’amore se non poesia e attrazione reciproca? Il corpo-scafandro diventa più leggero, mentre anche la navigata Cheryl scoprirà emozioni inattese. La liberazione sessuale diventa terapia psicologica per un uomo paradossalmente prigioniero più dei sensi di colpa (la morte della sorella, trascurata dai genitori che hanno sacrificato la propria esistenza alla cura del malato; il senso incombente della punizione, instillato dall’educazione cattolica e appena stemperato fra le battute: “sono stato creato a immagine e somiglianza di un Dio dotato di un perverso senso dell’umorismo”, commenta Mark in chiesa), che dalle menomazioni fisiche. Se i muscoli del corpo si ribellano, restando inerti a ogni comando, lo spirito di Mark è un fiume in piena, traboccante di desiderio d’amore. Personaggi colorati e un po’ sopra le righe (fra i quali spicca il simpatico prete William H. Macy, cui Mark chiede un consiglio “da amico” prima di cominciare le sedute), dialoghi brillanti e qualche lacrima ben dosata (ma senza ricatti emotivi), con un formidabile John Hawkes (l’inquietante Teardrop di Un gelido inverno, premiato al festival di Torino del 2010), cui bastano uno sguardo e un cenno del capo per far ruotare l’universo. Furbo, ma godibile.