Lo sguardo programmaticamente scorretto di Jonathan Levine con 50 e 50 guadagna maggiore onestà diventanto consapevolmente doloroso. Senza raggiungere l’anarchia “organica” e coraggiosamente amorale del cinema dei Farrelly, ma trasformandone comunque alcune intuizioni, il regista Americano riesce a controllare con abilità una materia impervia come quella di un tumore al lavoro, mantenendosi in equilibrio tra comica crudeltà ed empatia, ipocrisia e brutalità della parola, presenza grottesca del corpo e indicibilità del gesto.
Merito certamente della coppia Rogen-Goldberg (Superbad, Pineapple Express, The Green Hornet) che insieme a Will Reiser assestano una scrittura che non si preoccupa di sollecitare dal basso una riflessione incompromissoria sulla morte. E’ un corto circuito che disinnesca la retorica emotiva e quella del cinismo in una progressiva metastasi del sistema intimo-relazionale.
La malattia amplifica la percezione del gesto e ne rivela gli scarti, scopre l’inadeguatezza del corpo, sorprende le attitudini più ciniche come umanissime strategie della parola, anche quelle più intollerabili, per difendersi dalla morte; sono i gesti e il corpo di Anna Kendrick, così inadeguati per indagare i misteri della psiche, è lo straordinario ruolo interpretato da Bryce Dallas Howard, ancora una volta testimone liminale e negativo di un transito tra vita e morte, colta nel momento di un rifiuto radicale e laicissimo del dolore, o di altre presenze laterali, come quella della famiglia di Adam (Joseph Gordon Levitt).
Non ci riferiamo tanto ad Anjelica Huston, che con la consueta centralità riesce a capitalizzare due brevissime prove di bravura, quanto all’autismo non dichiarato di Richard, il padre di Adam interpretato da Serge Houde, figura assente colta in uno spazio di vegetazione transizionale, capace di reagire con un movimento di commozione pura alla prima parola d’amore del figlio. Vengono per forza in mente i fantasmi di Terry Zwigoff (fuori e dentro dall’universo Clowes), anime fuori posto ancorate ad una mondanità laida e bastarda, in lotta con la morte come i corpi più triviali della commedia americana recente; se Jonathan Levine deve probabilmente scrollarsi di dosso tutti i limiti di una confezione dall’educazione superpop buona per il Sundance, probabilmente gli unici punti deboli del suo ultimo lavoro risiedono nella cronometria della colonna sonora in cerca di analogie sin troppo strette con l’immagine, tanto da funzionare da vere e proprie suture, e l’ossessione di levigare alcuni passaggi, come per esempio la visione di Adam alterata dai dolcetti alla Marijuana, semplice motivo in forma di abbellimento, che al contrario sarebbe potuto essere un innesco notevole da contrapporre all’accanimento terapeutico della chemioterapia.
Tolte queste incertezze, 50 e 50 raccoglie la sfida di Rogen-Goldberg-Reiser con un’esecuzione equilibrata e il coraggio di rilanciare il segno di una possibile rinascita in quell’interstizio che risiede tra la cicatrice-vagina spennellata da Rogen in uno dei momenti più terreni, perversi e toccanti di tutto il film; e l’indicibilità di un gesto d’amore, sospeso fuori dal quadro e presente solo un attimo prima negli occhi acuti e infantili di una splendida Anna Kendrick.