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Sorelle Mai di Marco Bellocchio: la recensione

Sono trascorsi ormai quasi cinquant’anni dai Pugni in tasca, uno dei più folgoranti esordi che il cinema italiano ricordi, manifesto per nulla consolatorio di una generazione in lotta contro padri (e madri) troppo ingombranti, eppure Bobbio, il paese sperduto nel piacentino dove Marco Bellocchio è nato e cresciuto, sembra aver perso ben poco di quell’atmosfera di irrealtà sospesa e occlusiva che, nel film del 1965, gravava  sui protagonisti fino ad inghiottirli.

È Bobbio, con i suoi luoghi e le sue liturgie immutabili, a rappresentare il filo conduttore di Sorelle mai, il nuovo film di Bellocchio presentato in anteprima alla Mostra di Venezia dello scorso anno, una sorta di viaggio domestico e collettivo, a metà strada fra narrazione e filmato di famiglia, che sarebbe ingeneroso catalogare esclusivamente come esperimento didattico. Il film si presenta come una sorta di seguito ideale, distribuito su un quadro temporale più lungo, di Sorelle (2006), opera di cui condivide personaggi, trama e gestazione.

Anche stavolta il prodotto finale è infatti inscindibile dalla sua storia produttiva: anima e ispiratore del Festival del Cinema di Bobbio, Bellocchio trascorre qui due settimane ogni estate, dirigendo personalmente (eccezion fatta per la scorsa stagione, durante la quale era impegnato nell’allestimento mantovano del Rigoletto) il laboratorio Fare Cinema che, di anno in anno, ospita un ristretto gruppo di aspiranti lavoratori del settore. Budget ridotto, camera a mano e scorci bobbiesi sono gli irrinunciabili ingredienti delle riprese svolte nell’arco di quasi dieci anni, da troupe ogni volta differenti e sempre improvvisate, con l’ausilio di alcuni storici collaboratori. L’idea di costruire un lungometraggio, montando alcuni spezzoni girati dai partecipanti al seminario fra il 1999 e il 2008, è nata soltanto in itinere, eppure (grazie anche al sapiente montaggio di Francesca Calvelli) la nettezza della scansione episodica non altera un’armonia di sguardo e di tono che attraversa tutta la pellicola, di tanto in tanto inframmezzata, con ironia quasi beffarda, da frammenti tratti dai Pugni in Tasca (in un lampo la confusa rievocazione della madre da parte delle anziane sorelle è alternata all’immagine della madre cieca, vittima e carnefice, del primo film; la visita delle sorelle al cimitero è accostata a quella di un Lou Castel già colmo di propositi delittuosi). Attori professionisti (Donatella Finocchiaro, Alba Rohrwacher) e non si mescolano con naturalezza ai membri del clan Bellocchio, che realmente crescono all’interno del film (ed è uno degli aspetti più involontariamente geniali), evolvono interiormente e mutano aspetto, altezza e voce: il figlio Piergiorgio e la figlia Elena (rispettivamente zio e nipote nel film), le sorelle (“Mai” è il loro cognome nel film, e mai si sono allontanate da Bobbio, mai si sono sposate, come, con disarmante candore, fa loro notare la piccola Elena) o l’amico-amministratore Gianni Schicchi (la fantasmatica figura che ha attraversato tutto il cinema di Bellocchio).

C’è meno rabbia nello sguardo del regista, che tuttavia non si abbandona a scontati effetti nostalgici, ma mantiene uno spirito saldo e disincantato di fronte ad una provincia avvoltolata su se stessa, emblema della difficoltà metter in gioco se stessi, di liberarsi delle proprie eredità (la casa di famiglia, forse impegnata, in parte venduta; la tomba da ampliare per i prossimi cent’anni), di tagliare le proprie radici per spiccare il volo senza protezioni. Al centro del racconto ci sono i due fratelli, Pier Giorgio e Sara, scissi fra il desiderio di costruire la propria esistenza in un altrove e l’incapacità di emanciparsi davvero, fra la paura di rimanere imprigionati in un guscio troppo piccolo e un’irrisolutezza di fondo che costringe sempre a tornare sui propri passi (“prometto, prometto e forse non mantengo”, confida Pier Giorgio alla sorella). In un clima che pare immune al cambiamento (questo il rimprovero rivolto anche alla “forestiera” Alba Rohrwacher dal fidanzato), dove gli impegni coincidono troppo spesso con i rinvii (il matrimonio di Pier Giorgio, il ritorno di Sara, un nuovo lavoro), Elena, prima bambina e poi giovane donna, è una speranza di vitalità nuova, mentre le sorelle appaiono come le eterne e solerti custodi di un ordine silenzioso e immutabile.

Eppure forse alla fine qualcosa accade davvero, quasi impercettibilmente un ciclo si chiude, con la misteriosa, quasi sognante scomparsa nel Brenta di Gianni Schicchi, l’uomo in frac che scivola nel nulla, lasciandoci con un cappello fra le mani.

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