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ACAB di Stefano Sollima, l’incontro con la stampa

Esce il prossimo venerdì la pellicola tratta dal libro A.C.A.B. (acronimo di all cops are bastards), che nel 2009 il giornalista de «La Repubblica» Carlo Bonini ha pubblicato per conto di Einaudi. Il film segna l’esordio sul grande schermo di Stefano Sollima, già autore dell’acclamata serie televisiva Romanzo criminale. Distribuito in 300 copie dalla 01 Distribution, A.C.A.B. ruota intorno alle azioni scellerate di un gruppo di celerini, che in passato si sono macchiati le mani all’interno della scuola Diaz compiendo una vera e propria “macelleria messicana”. Abbiamo incontrato l’autore, il produttore Marco Chimez e il resto del cast – composto da Pier Francesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini, Andrea Sartoretti e Domenico Diele – che ci hanno parlato della loro esperienza sul set.

È corretto sostenere che il film sia una miscela di adrenalina e azione, coniugata con tematiche d’impatto sociale?

 

Stefano Sollima: L’idea di A.C.A.B. era proprio quella di fare un film di genere. Infatti, lo considero alla stregua di un poliziesco degli anni ’70. È chiaro che l’iconografia del reparto mobile sicuramente si presta in modo particolare a questo tipo di esigenza. Nella pellicola, la vicinanza con lo spirito per così dire “gladiatorio” che infuoca l’animo dei protagonisti è denunciata proprio dal graffito che sta all’interno della caserma. Fondamentalmente, però, l’idea era quella di fare un film di genere, che affrontasse lateralmente e non in maniera diretta alcuni temi della nostra società. Il mio scopo consiste nell’avvalersi delle imprese di un gruppo di celerini per raccontare la cortina di odio che avvolge la società in cui viviamo. Nel racconto di A.C.A.B. è possibile rintracciare dei momenti di violenza e d’intolleranza, che sono poi sotto gli occhi di tutti noi non appena ci muoviamo per le vie della città. Questo mondo in A.C.A.B. lo si vede, però, da un punto di vista inusuale, che non è mai stato rappresentato in campo letterario e cinematografico.

Qual è stato il contributo della polizia al film e che tipo di feedback avete ricevuto dai dirigenti della forza pubblica?

Marco Chimez: Durante la realizzazione di A.C.A.B., la produzione non ha potuto contare sul supporto delle forze dell’ordine né per quanto riguarda i mezzi, né per caserme da adibire a eventuali location. Tuttavia, va anche detto che il corpo di polizia non ha in alcun modo ostacolato la pellicola. È emersa in noi l’impressione che la celere abbia voluto assumere a monte un atteggiamento di distanza. Siamo a conoscenza del fatto che vari esponenti della polizia abbiano visto il film, ma finora non c’è mai stata comunicata una loro reazione ufficiale e non sappiamo se questo accadrà mai. A livello di reazioni personali, sappiamo solo che alcuni agenti hanno smentito qualsiasi attinenza del film con la realtà, mentre altri hanno visto in A.C.A.B. una rappresentazione veritiera della loro vita.

Pierfrancesco, come ti sei preparato per interpretare la parte del Cobra? Raccontaci la tua vicenda.

Pierfrancesco Favino: Per entrare nei panni di Cobra, ho innanzitutto seguito duri allenamenti di rugby, uno sport che presenta vari punti in comune con molte tecniche di attacco e di difesa. Durante questo training fisico, io e i miei compagni abbiamo rinsaldato le relazioni di amicizia preesistenti. Sono del parere che si possa pensare quello che si vuole prima di affrontare un lavoro d’indagine psicologica con personaggi così delicati. Quando però ci s’immedesima in questi ruoli, è praticamente impossibile non rendersi conto che dentro di noi alcune sensazioni inizino a nascere spontaneamente. Per esempio, ognuno può dichiararsi “pacifista”, ma scopre di esserlo davvero oppure no solo nel momento in cui un malvivente bussa alla porta e minaccia la propria famiglia. Lo stesso si può dire quando l’attore prova sul suo corpo l’esperienza di stare dietro a uno scudo con un gran numero di persone davanti, pronte a tirare i sassi all’avversario. Questa simulazione provoca dei sentimenti di rabbia così intensi da non poter essere descritti, per cui in alcuni istanti ho avuto come l’impressione di sentire risalire in me l’aggressività naturale dell’uomo.

Avevate e avete tuttora dei pregiudizi verso gli agenti della squadra mobile?

Filippo Nigro: Io ho sempre avuto delle forme di prevenzione nei confronti della celere, sebbene in quanto attore abbia cercato di impormi una visione neutrale. Posso comunque affermare che ultimamente la mia percezione è mutata. Reputo questi poliziotti per quel che sono: gente abituata a usare la violenza. Spesso, inoltre, il limite entro il quale questa violenza viene impiegata risulta poco decifrabile. Per questo motivo, capita che loro si ricostruiscano un senso di Stato del tutto personale.

Domenico Diele: Il dover interpretare la parte di un poliziotto mi ha costretto a esplorare più approfonditamente le ragioni dietro cui si arroccano queste persone. Tirando le somme, la mia opinione è più o meno la stessa di prima, però ho molti più strumenti per valutare le singole reazioni.

Marco Giallini: Non avevo preconcetti sul reparto mobile prima e nemmeno ora li ho, perché non ho mai avuto a che fare con la celere a differenza di mio fratello.

Andrea Sartoretti: La mia opinione più che essere cambiata, si è sicuramente arricchita perché calandomi nei panni dell’ex celerino Carletto ho percepito la tensione immensa provata dai tutori dell’ordine ogni volta che scendono nelle strade. Non dimentichiamoci che questi agenti sono pagati poco per vivere una guerra civile quotidiana. Per concludere, mi sento di asserire che il mio giudizio ora ha più colori.

Che cosa rispondi a chi giudica la tua opera il contraltare di film come Black Block di Carlo A. Bachschmidt e di Diaz di Daniele Vicari, entrambi incentrati sugli avvenimenti accaduti a Genova?

Stefano Sollima: L’uscita di A.C.A.B. parallelamente alla presentazione al Festival di Berlino del film di Daniele Vicari è completamente casuale. I fatti di Genova non abbiamo voluto raccontarli direttamente perché già sono stati molto rappresentati al cinema e non credo che avremmo potuto aggiungere altro. Eppure, il G8 è presente anche in A.C.A.B., aleggiando al pari di un fantasma, dato che ha compromesso l’esistenza dei quattro personaggi più anziani.

Il capovolgimento del punto di vista rende più complicata la rappresentazione della realtà. Sapevate di poter correre un rischio morale nel percorrere questo sentiero?

Carlo Bonini: La prima reazione dello spettatore di fronte alla sequenza in cui i poliziotti picchiano dei romeni, responsabili di aver aggredito a male parole un extracomunitario, è pensare che questi celerini si stiano comportando nel modo giusto. Fortunatamente, questa impressione è solo passeggera. Credo che se scrivi un libro o realizzi un film il primo passo necessario sia quello di liberarsi dal ricatto della morale, altrimenti non si può procedere avanti. Quanto ho incontrato di persona i tre protagonisti del mio libro, mi ricordo di aver dovuto compiere sulla mia pelle un’operazione difficilissima, perché c’erano degli aspetti dei loro racconti che a me davano profondamente fastidio anche solo ad ascoltarli. Per non parlare poi, di quando ho dovuto raccontarli lungo le pagine del libro… Ma, sono cosciente che si tratta di un passaggio obbligato. Sicuramente ci sarà qualcuno, com’è già successo all’uscita del testo, convito che A.C.A.B. voglia togliere la museruola al rottweiler che è in noi. Questo perché un film può contare sulla potenza dell’immagine che un libro non dispone. Però, io sono certo che chi legge o chi va al cinema sia una persona intelligente e non cadrà in questo errore.

Qual è il profilo del celerino? C’è un orientamento politico definito che emerge nel corso della visione del film?

Stefano Sollima: Secondo me, è molto difficile generalizzare. È ovvio che ci sia una certa attitudine da parte delle persone che poi svolgono questo mestiere; d’altronde, mica puoi spedire delle crocerossine a far servizio d’ordine in uno stadio colmo di ultras! Sono comunque convinto che sia fuorviante relegare queste persone in un’unica e omogenea classe politica.

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