giovedì, Novembre 21, 2024

Adam Resurrected – di Paul Schrader – Berlino 59 – Special

Con Adam Resurrected, Paul Schrader torna alla forma smagliante di Autofocus dopo la prova un po' fiacca di The Walker (2007), il suo American Gigolo gay - con un Woody Harrelson sorprendentemente in parte

“You’ve been a good dog”, dice il comandante Klein, piccolo come il suo nome, a un cane. O meglio, a un uomo fattosi cane. Un divenire animale degno del Kafka riletto e interpretato da Gilles Deleuze. Uomo, figlio d’un cane è la traduzione letterale del bestseller pubblicato nel 1968 dall’autore israeliano Yoram Kaniuk, che ora Paul Schrader ha trasformato in un film co-prodotto da Israele, Stati Uniti e Germania. Le fette della torta produttiva saltano subito all’occhio. Americani i protagonisti Jeff Goldblum (Adam Stein), Willem Dafoe (Klein), Derek Jacobi (Gross, il direttore della clinica). Tedeschi molti dei comprimari di lusso (in testa, il sanguigno Moritz Bleibtreu) e gran parte del denaro investito. Israeliano prima di tutto lo spirito, e in seconda battuta il set. Una clinica psichiatrica nel deserto, a un tiro di schioppo da Tel Aviv. Siamo nel 1961, e Adam Stein è il paziente più vistoso. Non solo per via della sua statura. Tra tutti gli internati è quello più vicino alla sanità mentale, se non ci fosse un fardello che gli impedisce di riacquistare la pace, e ogni tanto esplode come una sacca di sangue in un film di Peckinpah. Adam ringhia, sbava, abbaia. Adam ha improvvise emorragie. Adam perde sangue da un piede.

Adam Stein era un’attrazione della Berlino gaia e festosa della Repubblica di Weimar. Aveva un Zirkus tutto suo con tanto di orsi, ragazzine circondate da coltelli, danzatrici zinnute e come dimenticare il pezzo forte: il momento in cui Adam sceglieva un avventore, lo annusava, gli strofinava la giacca e capiva cosa aveva fatto nelle ultime ore. Come un Hanussen ebreo, a metà strada tra il Klaus Maria Brandauer della Notte dei maghi (1988) di Szabò e il Tim Roth di Invincibile (2001). Ma come lo Zishe Breitbart del film di Herzog, Adam è ben lungi dall’essere invincibile. Finisce in un campo di concentramento dove ad attenderlo trova un vecchio spettatore che aveva messo alla berlina, dandogli pure una pacca sulla schiena con la mano insanguinata. Pur in assenza di una M bianca di gesso… un indizio di mostruosità? L’ex spettatore è Klein, che fa di lui il suo cane.

Ein Leben für ein Leben è il titolo tedesco della pellicola: una vita per una vita. Klein salva Stein, e Stein salva Klein: lo diverte, tiene compagnia al suo pastore tedesco (ovviamente capobranco), attutisce quegli istinti suicidali che aveva già subodorato in platea, anni prima. E quando arrivano i russi, Klein sa come premiare Adam. “You’ve been a good dog”. E Adam, con un cartiglio sotto l’ascella, se ne va dal campo di concentramento insieme ai pochi sopravvissuti, in quella che sembra una marcia di zombi targata Romero. Lo ritroviamo nel 1961 in un altro luogo chiuso, un altro Corridoio della paura. Adam ora sta tra i matti in una clinica specializzata nel trattare la follia dei reduci dei Konzentrationslager nazisti. Ordinaria amministrazione, se non fosse che un bel giorno Adam scopre un nuovo internato: un ragazzino che crede di essere un cane. Un ragazzo selvaggio dal trauma imprecisato. Tra i due si crea un legame simbiotico che – va da sé, manco è uno spoiler – ripristinerà la sanità di entrambi. Ma prima Adam dovrà truccarsi come Jeremy Irons alla fine di M. Butterfly (1993), vagare nel deserto sotto un cielo stellato, incontrare un cespuglio parlante… ed esorcizzare il proprio demonio. Quel piccolo diavolo che si porta dentro dai tempi della deportazione.

Con Adam Resurrected, Paul Schrader torna alla forma smagliante di Autofocus (2002) dopo la prova un po’ fiacca di The Walker (2007), il suo American Gigolo gay – con un Woody Harrelson sorprendentemente in parte – passato anch’esso alla Berlinale. Lo fa con un film debordante e fantasioso, sfacciato e terragno. Una pellicola che inizia con un primissimo piano strabico (un trucco tanto ingenuo quanto efficace) e si tuffa nel bianco nero fiabesco delle notti berlinesi e delle loro creature. Lo fa riappropriandosi di una “sua” creatura, il Defoe tentatore, e mettendo in bocca a Goldblum una parola chiave della sua intera filmografia: trascendenza. Detto questo, non tutto torna. I nazisti hanno l’aria delle solite marionette e le sequenze nel campo di concentramento sono schiacciate sotto il peso del dejà vu. Anche tra le mura della clinica l’eccesso di materiale umano e narrativo lascia dietro di sé qualche falla. Nel complesso, tuttavia, Adam Resurrected tiene e non delude. Schrader ci consegna un nuovo ritratto maschile sotto il segno degli estremi. Un carisma e un’umanità rari, contrappesati da sciagure castranti e tare inspiegabili. A ben guardare, infine, il romanzo di Kaniuk mescola il tema della Shoah con un elemento dissonante – il sorriso: Adam è una specie di clown allampanato – che ritorna spesso nei trattamenti cinematografici della Shoah o più in generale della prigionia sotto i nazisti. Si pensi solo a Stalag 17 (1953) di Billy Wilder, alla sit-com Hogan’s Heroes (1965-1971) che ha ispirato Autofocus, a Jakob il bugiardo (1974) di Frank Beyer… e a un film che nessuno ha mai visto ma che tutti conoscono. Un film, pare, inguardabile per la sua bruttezza e la sua retorica approssimativa. Stiamo parlando di The Day The Clown Cried (1971) di Jerry Lewis. Con la sua commistione di tragedia e commedia, col suo grottesco che caccia la lingua in bocca all’imprescrivibile, ci piace pensare che la storia di Adam sia la reincarnazione della vhs che Jerry Lewis tiene gelosamente nel suo ufficio. Il Verbo si fa nuovamente carne. Carne di cane.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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